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Superbonus e cantiere abbandonato: quali azioni può esperire il committente?

Danno non patrimoniale

Autonoma risarcibilità del danno esistenziale

Cassazione Civile, Sez. III, Sentenza n. 22585/2013

Danno non patrimoniale – Danno biologico – Assenza – Danno esistenziale – Configurabilità – Autonoma risarcibilità – Sussiste

PREMESSA:

La Suprema Corte, dopo aver ribadito per l’ennesima volta che le Sentenze Gemelle del 2008 non hanno mai cancellato l’autonomia del danno morale, intesa come voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, si sofferma sulla risarcibilità del danno esistenziale, nel caso in cui manchi del tutto un danno biologico.

Gli Ermellini, inoltre, trasponendo le coordinate giuridiche dell’art. 612 bis del codice penale, colgono l’occasione per puntualizzare che i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo sono caratterizzati:

1) dal dolore interiore

2) dalla significativa alterazione in peius della vita quotidiana.

IL PASSO SALIENTE DELLA SENTENZA

[…] La mancanza di “danno” (conseguenza dannosa) biologico, in tali casi, non esclude, peraltro, in astratto, la configurabilità di un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) e di un possibile danno “dinamico-relazionale”, sia pur circoscritto nel tempo.

Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura delle sentenze delle sezioni unite del 2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato l’indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (il rapporto familiare e parentale, l’onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all’ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale).

Una indiretta quanto significativa indicazione in tal senso potrebbe essere rinvenuta nel disposto dell’art. 612-bis del codice penale, che, sotto la rubrica “Atti persecutori”, dispone che sia “punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale – i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore interiore, e la significativa alterazione della vita quotidiana.

Danni diversi e, perciò solo, entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni (che anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita “esterna” per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa).

E’ lecito ipotizzare, come sostiene il ricorrente incidentale, che la categoria del danno esistenziale risulti “indefinita e atipica”.

Ma ciò è la probabile conseguenza dell’essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, “indefinita e atipica”.

LA SENTENZA INTEGRALE

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. UCCELLA Fulvio – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6531/2010 proposto da:

ISTITUTO REGIONALE (OMISSIS), in persona del Direttore Generale Dott. C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA STOPPANI 1, presso lo studio dell’avvocato CARLO COMANDE’, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.D. (OMISSIS), elettivamente, domiciliato in ROMA, VIA DI VAL GARDENA 3, presso lo studio dell’avvocato DE ANGELIS LUCIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato AIELLO ABELE giusta delega in atti;

M.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VILLA PATRIZI 13, presso lo studio dell’avvocato GEMMA ANDREA, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUNTA CATERINA giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

C.S. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI ;

– intimati –

Nonchè da:

A.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. TOSCANI 37, presso lo studio dell’avvocato LOMBARDO BALDASSARRE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FLORA CALANDRINO giusta delega in atti;

– ricorrente incidentale –

e contro

C.S. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI ;

– intimati –

Nonchè da:

AN.GI. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, P.LE CLODIO 14, presso lo studio dell’avvocato GRAZIANI ANDREA, rappresentato e difeso dagli avvocati SIGNORELLO MAURIZIO, CUPPARI CARMELO giusta delega in atti;

– ricorrente incidentale –

e contro

M.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VILLA PATRIZI 13, presso lo studio dell’avvocato GEMMA ANDREA, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUNTA CATERINA giusta delega in atti;

ISTITUTO REGIONALE DELLA VITE E DEL VINO (OMISSIS), in persona del Direttore Generale Dott. C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA STOPPANI 1, presso lo studio dell’avvocato CARLO COMANDE’, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrenti all’incidentale –

e contro

C.S. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI ;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1345/2009 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 08/09/2009 R.G.N. 133/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/02/2013 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ATTILIO TERZINO per delega;

udito l’Avvocato ANGELO COLUCCI per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale dell’Istituto, assorbimento del ricorso incidentale condizionato AN., accoglimento del 1 motivo, rigetto del 2 motivo e 3 motivo ed assorbimento del 4 motivo del ricorso incidentale non condizionato AN.; rigetto del ricorso incidentale A..

Ritenuto in fatto

Il (OMISSIS) An.Gi., dirigente chimico in servizio presso la sezione di (OMISSIS) dell’Istituto regionale della Vite e del Vino, prese in consegna da due ufficiali della G.d.F. – inviati presso il detto istituto da un magistrato della procura della Repubblica di Brindisi – una borsa contenente alcuni campioni di liquido da analizzare in qualità di perito all’uopo nominato dal predetto ufficio giudiziario. Nel percorrere una rampa di scale che conduceva al laboratorio dove sarebbe stato riposto il materiale consegnatogli dai finanzieri, l’ An. inciampò, perdendo l’equilibrio, e cadde nello spazio vuoto esistente tra i due montanti di sostegno del passamano della scala. Ne riportò gravissime lesioni, che ne cagionarono la totale compromissione della capacità lavorativa e la irredimibile modificazione in pejus della qualità della vita.

Vennero così convenuti in giudizio, dinanzi al Tribunale di Marsala, P.P., presidente del consiglio di amministrazione e di legale rappresentante dell’ente, A.S., dirigente del settore amministrativo con competenza sulla gestione degli immobili, ed M.E., direttore dell’istituto, dei quali An. G. chiese la condanna al risarcimento dei danni subiti nella misura di L. 2.338.446808. Lamentò, in particolare, l’attore che ciascuno dei convenuti, nell’ambito delle rispettive competenze, aveva omesso di adottare le dovute misure antinfortunistiche, come emerso nel corso del procedimento penale instauratosi a loro carico e conclusosi con l’applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p.: i gradini della scala, difatti, si presentavano pericolosamente sdrucciolevoli, come egli non aveva mancato di far notare ai responsabili, ma ciò nonostante l’unica protezione esistente era rappresentata, al tempo dei fatti, da un corrimano in ferro che lasciava ai due lati della rampa ampi spazi verso il vuoto – mentre un appropriato parapetto avente le caratteristiche previste dal D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 26 e 27, avrebbe sicuramente evitato l’infortunio, anche alla luce di una segnalazione dell’ing. Ca., che aveva rappresentato la necessità di eseguire alcune opere all’interno dell’istituto, tra cui l’installazione di elementi protettivi della scala per conformarla alla normativa antinfortunistica (opere puntualmente eseguite dopo il verificarsi dell’evento). Furono chiamati in causa da P.D. tutti i componenti del Consiglio di amministrazione dell’istituto a titolo di regresso ex art. 2055 c.c., e si provvide alla riunione del procedimento con il successivo giudizio promosso in riassunzione dallo stesso An.Gi. nei confronti del solo Istituto della Vite.

Il giudice di primo grado – alla luce della relazione dell’ispettorato del lavoro, espressamente indicativa della non conformità della scala alla normativa antinfortunistica ritenendo che, di tale situazione di pericolo, fossero sicuramente a conoscenza l’ A., il M., il P. e tutti i consiglieri, accolse la domanda risarcitoria in parte qua, e, dopo aver escluso qualsivoglia ipotesi di colpa concorrente del danneggiato:

– condannò in solido P.D., M.E. e l’Istituto regionale della Vite e del Vino al pagamento, in favore dell’attore, della somma di Euro 1.541.573 a titolo di risarcimento di danno morale, biologico e non patrimoniale, nonchè alla ulteriore somma risultante dalla sottrazione di Euro 231.698 da quella di Euro 557.773, a titolo di danno patrimoniale;

– quantificò (in accoglimento delle relative domande di regresso) la responsabilità del P. e del M. nelle misura, rispettivamente, dell’11% e del 5%;

– rigettò l’istanza risarcitoria proposta nei confronti di A. S., ritenendone nella specie impredicabile qualsivoglia forma di responsabilità;

– dichiarò il proprio difetto di giurisdizione in ordine tanto alla domanda di rivalsa spiegata dall’Istituto nei confronti dei tre originari convenuti quanto a quella di garanzia proposta dal M. nei confronti del detto Istituto;

– accolse la domanda di regresso spiegata dal P. nei confronti di tutti i soci componenti del consiglio di amministrazione, ritenuti colpevolmente concorrenti nella misura del 7% ciascuno.

La Corte di appello di Palermo, investita dei gravami hic et inde proposti, accolse in toto quelli del P. e del M., mandandoli assolti da ogni responsabilità, ed accolse in parte quello dell’Istituto della Vite, riducendo a vario titolo l’importo del risarcimento dovuto all’ An. – del quale ritenne predicabile, a differenza del giudice di prime cure, una concorrente responsabilità nella misura del 25%.

Per la cassazione della sentenza della Corte siciliana ha proposto ricorso, illustrato da un unico, complesso motivo di impugnazione, l’Istituto Regionale della Vite e del Vino.

Resistono M.E., P.D. con controricorso, mentre A.S. e An.Gi. integrano l’atto di resistenza all’impugnazione principale ciascuno con ricorso incidentale, cui resiste con controricorso l’Istituto della Vite.

P.D., A.S. e l’Istituto Regionale della Vite hanno altresì depositato memorie illustrative.

Considerato in diritto

Dei ricorsi riuniti, devono essere accolti quello principale dell’Istituto regionale della Vite e del Vino e quello incidentale condizionato di An.Gi..

Meritano altresì accoglimento il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale non condizionato An. (con assorbimento del quarto motivo) e il ricorso incidentale A..

Deve invece essere rigettato il primo motivo del ricorso An..

IL RICORSO PRINCIPALE DELL’I.R.V.V..

Con il primo ed unico motivo, la difesa dell’ente denuncia, testualmente, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e precisamente dell’art. 2043, con specifico riferimento al principio di diritto che ne individua i presupposti applicativi nei confronti della P.A., e art. 28 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3);

contraddittorietà della motivazione in relazione al primo capo della sentenza relativo alla decisione sulle domande spiegate nell’appello dell’Istituto (art. 360, n. 5). Insussistenza di responsabilità in capo all’IRVV. La censura è fondata in diritto, anche se il suo accoglimento non può condurre – come si avrà modo di precisare in sede di esame del ricorso incidentale An. – al risultato auspicato dalla difesa dell’istituto – id est alla affermazione di un principio di diritto che consenta al giudice del rinvio di provvedere alla incondizionata e definitiva assoluzione da responsabilità dell’ente vinicolo.

La giuridica fondatezza della censura si coglie, sia pur in parte qua, alla luce del principio secondo cui non è legittimamente predicabile la responsabilità di un ente in assenza della speculare ed espressa affermazione di responsabilità del/dei soggetti che abbiano agito in sua rappresentanza (intesa quest’ultima in senso organico).

E’ principio di diritto consolidato presso questa Corte regolatrice (principio cui sembrerebbe prestare formale ossequio la stessa sentenza impugnata, volta che, al folio 38, vi si afferma che la responsabilità dell’IRVV si radica, nel caso di specie, proprio in forza del rapporto organico), difatti, quello secondo il quale la responsabilità aquiliana degli enti si fonda proprio sul rapporto organico con le persone fisiche che li rappresentino – oltre che sulla relazione che lega agli enti stessi a tutte le altre persone fisiche inserite nell’organizzazione burocratica o aziendale (in argomento, tra le tante, Cass. 2089/2008 e 3980/2003).

Il principio così predicato sul piano della morfologia dell’illecito postula, peraltro, come suo logico corollario sotto il profilo funzionale, che sia stata accertata e dichiarata una qualsivoglia responsabilità, ex art. 2043 c.c., di (almeno) una delle persone fisiche poste in rapporto giuridicamente rilevante (organicamente qualificato, o meno) con l’ente stesso (amministratori, funzionari, dipendenti), le quali, per la posizione di “protezione” rispettivamente rivestita, siano in condizione di adottare le misure preventive necessarie ad evitare la consumazione dell’illecito. Nel caso di specie, la corte di appello ha espressamente negato che una responsabilità di tal genere potesse rinvenirsi in capo al presidente del C.d.A. e legale rappresentante dell’istituto, P. D., ovvero in capo agli altri componenti del C.d.A., ovvero ancora al direttore preposto alla gestione del patrimonio immobiliare, M.E., senza nel contempo accertare nè sanzionare espressamente, sul piano sostanziale, sia pur soltanto incidenter tantum (stante la preclusione formale scaturente dalla mancata proposizione dell’appello da parte del danneggiato), tale responsabilità con riferimento alla posizione di A. S., mero coordinatore del settore amministrativo.

Nei suoi confronti, difatti, pur avendone genericamente rilevato, nelle poche righe che si occupano della sua posizione, una pretesa violazione di un obbligo di segnalazione e informazione (per avere egli omesso di segnalare al c.d.a. il contenuto della nota dell’ing. Ca. indirizzata all’Istituto ed allo stesso A.), la forte di appello non procede poi ad alcun espresso accertamento ed ad alcuna espressa declaratoria, sia pur, ripetesi, in via soltanto incidentale (come pure sarebbe stato legittimo, al fine di giustificare la responsabilità dell’ente), in ordine ai presupposti della relativa responsabilità – ritenendo conseguentemente assorbite le domande formulate dal P. e dal M. volte a tale affermazione in conseguenza della mancata impugnazione, da parte dell’ An., del capo di sentenza con la quale il tribunale di Marsala aveva rigettato la domanda di risarcimento proposta nei confronti dello stesso A., ritenendone, appunto, insussistente ogni responsabilità.

Non risulta, pertanto, applicabile, nella specie, il principio di diritto espresso da questa stessa Corte, a mente dei quali l’azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell’operato dell’autore del fatto che integra una ipotesi di reato, è ammessa – tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali – anche quando difetti una identificazione precisa dell’autore del reato stesso e purchè questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui operato il convenuto sia civilmente responsabile in virtù di rapporto organico, come quello che lega la società di capitali al suo amministratore, o di dipendenza. Nel caso di specie, difatti, ciò che manca non è la precisa individuazione del responsabile (che anzi risulta astrattamente individuato con assoluta precisione), ma il corretto ed esplicito esame, incidenter tantum, della sua posizione sostanziale, pur nella preclusione, sul piano processuale, di ogni ulteriore indagine nei suoi confronti. La corte di appello, difatti, al folio 39 della sentenza oggi impugnata, compie un fugace (quanto inesatto) excursus motivazionale che ha riguardo al comportamento tenuto dall’ A. – del quale è messa in luce la posizione di “interlocutore dell’ing. Ca.” per effetto di una nota del 18.11.1991 (diretta, peraltro, anche all’Istituto), e quella di “destinatario del compito di rassegnarne il suo esatto contenuto all’organo amministrativo, al suo presidente e al direttore” – per concludere, sic et simpliciter, che, “in forza del rapporto organico”, la responsabilità dell’Istituto risulterebbe ad ogni buon conto predicabile a prescindere dalla mancata impugnazione dell’assoluzione dell’ A. in prime cure.

Tale statuizione merita la censura svolta nell’odierno controricorso dalla difesa dell’ A., che legittimamente lamenta una patente contraddittorietà della motivazione della sentenza d’appello alla luce della ben più pregnante ed approfondita disamina della vicenda operata dal tribunale (che questa corte può conoscere ed esaminare per essere stata integralmente riportata nel corpo della stessa sentenza di appello), dalla quale emerge la correttezza dell’esclusione della sua responsabilità, attesone, da un canto, il compito di vigilanza e garanzia rispetto alla sola consistenza patrimoniale dell’istituto (e non anche quello di adozione di misure antinfortunistiche rispetto alle quali egli non aveva alcun potere decisionale e/o di spesa); dall’altro, la impredicabilità di un suo obbligo di impedire l’evento in quanto in posizione residuale e settoriale rispetto: 1) al potere di determinazione del c.d.a.; 2) a quello di adozione di provvedimenti urgenti da parte del presidente P.; 3) all’obbligo di intervento gravante sul M.;

dall’altro ancora, la assoluta mancanza di prova che egli fosse a conoscenza del perdurare della situazione di pericolosità della scala una volta rimessa la questione alle determinazioni del c.d.a..

La sentenza di primo grado, diversamente da quella di appello, evidenzia poi, del tutto correttamente, la decisiva circostanza secondo la quale il Pianeta, al pari del consiglio di amministrazione, fosse perfettamente a conoscenza della situazione di pericolosità della scala (così è testualmente riferito ai ff. 21- 22 della sentenza d’appello), tanto da aver espressamente rappresentato all’assemblea la necessità di realizzare lavori di adeguamento della sede dell’istituto, definiti necessari ed urgenti dall’ing. Ca. con la già ricordata nota 18.11.1991, nota indirizzata anche all’istituto e depositata presso l’ente in data 20.11.1991 (tra tali lavori, si indicavano espressamente quelli volti all’istallazione di fasce di lamiera sulla ringhiera di protezione della scala per renderla conforme alla normativa antinfortunistica), tanto che “l’assemblea, dopo ampia discussione, aveva deliberato di dare mandato all’ing. Ca. perchè provvedesse alla progettazione dei lavori necessari”.

Sotto questo limitato profilo in punto di diritto, il ricorso principale deve, pertanto, trovare accoglimento, alla luce, da un canto, della mancata, espressa valutazione ed affermazione (in termini di sua astratta configurabilità) di una responsabilità ex art. 2043 c.c., dell’ A. (del tutto insufficienti, oltre che erronei, risultando gli scarni riferimenti di cui poc’anzi si è riferito), dall’altro, della (altrettanto inesatta) ricostruzione della condotta dei convenuti P. e M. negli speculari termini di assenza di responsabilità per il fatto dannoso: ciò che comporta, ipso facto, la attuale impossibilità di veder ricondotta all’ente qualsivoglia forma di responsabilità organica o di posizione, senza che questo, coma già anticipato in premessa, conduca, peraltro, all’assoluzione da ogni responsabilità dell’istituto ricorrente, a cagione dell’accoglimento in parte qua del ricorso incidentale An., di cui a breve si dirà.

IL RICORSO INCIDENTALE A..

Per i motivi suesposti, deve essere accolto il motivo di ricorso incidentale svolto dalla difesa A. in punto di liquidazione delle spese del primo e secondo grado di giudizio, alla cui definizione provvedere il giudice del rinvio, in conseguenza della rivalutazione dei fatti di causa da operarsi alla luce dei principi di diritto indicati dalla Corte.

IL RICORSO AN..

a) Il ricorso incidentale condizionato.

Con l’unico motivo di ricorso incidentale (condizionato all’accoglimento di quello principale poc’anzi esaminato), la sentenza di appello viene censurata, ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2043 c.c.) in relazione ai presupposti applicativi nei confronti della P.A. e dell’art. 28 Cost., con riferimento al principio di diritto per il quale, nel caso di infortuni sul lavoro dovuti a carenze di ordine strutturale, sono responsabili gli organi apicali dell’ente, ai quali fanno capo i poteri di indirizzo e di programmazione; nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per difetto di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riferimento all’obbligo degli organi apicali dell’ante (presidente e consiglio di amministrazione) e del direttore generale (consegnatario degli immobili e responsabile della sicurezza dei lavoratori) di provvedere alle misure legali di prevenzione infortuni sul lavoro adottando i provvedimenti di competenza per eliminare le carenze strutturali della scala interna della sede marsalese dell’istituto.

L’accoglimento del motivo di ricorso principale consente di esaminare il contenuto della censura così come sopra riportata.

Essa è fondata.

Incorre, difatti, in errore la corte territoriale nell’escludere, dal novero dei responsabili dell’evento di danno che colpì l’ An. tanto il C.d.A. dell’ente, quanto P.D. ed M.E. nelle rispettive qualità. E’ principio di diritto consolidato presso questa corte regolatrice, difatti, quello secondo il quale, delle carenze strutturali degli immobili (quali certamente quelle da cui risultava caratterizzata la scala delle sede dell’Istituto), rispondono gli organi apicali (“l’organo politico di vertice”, secondo il dictum di Cass. n. 21010 del 2006, che, pur occupandosi di una vicenda di responsabilità riguardante un ente territoriale afferma peraltro principi che, mutatis mutandis, appaiono del tutto conferenti alla fattispecie in esame, volta che in sentenza si legge ancora che tale responsabilità risulta configurabile solo in presenza di specifiche situazioni, correlate alle attribuzioni proprie di tale organo, e, cioè, quando si sia al cospetto di violazioni derivanti da carenze di ordine strutturale, riconducibili all’esercizio dei poteri di indirizzo e di programmazione, ovvero quando l’organo politico sia stato specificamente sollecitato ad intervenire, ovvero ancora quando sia stato a conoscenza della situazione antigiuridica derivante dalle inadempienze dell’apparato competente, e abbia cionondimeno omesso di attivarsi, con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio).

Questa stessa Corte, poi, sia pur in sede penale, e sotto diverso profilo, ha dal suo canto affermato ripetutamente che, al fine di affermare la responsabilità di un dipendente amministrativo addetto ad un determinato servizio gestito da una pubblica amministrazione, occorre considerare la ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze, i limiti della delega ottenuta e le funzioni in concreto esercitate, e distinguere tra carenze strutturali, addebitabili ai vertici dell’ente, e deficienze derivanti dall’ordinario buon funzionamento, delle quali è tenuto a rispondere il funzionario addetto al settore secondo la ripartizione interna e istituzionale delle specifiche competenze (ex multis, Cass. pen. 5407/1996, in conformità con quanto già in precedenza affermato dalle stesse sezioni unite penali con la sentenza n. 9874 del 1992).

Dalla descrizione degli eventi così come operata dal giudice territoriale emerge ictu oculi come la non conformità della scala a cagione della quale ebbe a verificarsi il gravissimo incidente fosse dovuta ad una vera e propria carenza strutturale (e non anche di una omessa o cattiva manutenzione) del manufatto, conseguente alla altrettanto dimostrata difformità dai precetti normativi dettati in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Da una evidente responsabilità della vicenda di danno così correttamente ricostruita (e correttamente esaminata in prime cure), non potevano, pertanto, dirsi esenti, sic et simpliciter, i vertici dell’istituto, cui andava viceversa ascritta la qualità di “debitori di sicurezza” risultati, nella specie, colpevolmente inadempienti.

Incorre in una irredimibile contraddizione, per altro verso, la sentenza impugnata nella parte in cui omette di considerare che la deliberazione del C.d.A. del 10.12.1991 riproduceva esattamente, e nel medesimo ordine, i tre interventi necessari ed urgenti proposti dall’ing. Ca. nella nota 20.11.1991 – diretta tanto all’ A. quanto specificamente all’istituto -, onde l’inevitabile inferenza di ordine logico secondo la quale tale nota fu evidentemente portata a conoscenza del consiglio. La contraddittorietà della motivazione appare ancor più palese se si consideri che in nessun modo e in nessun passaggio argomentativo essa esamina e contesta quanto affermato dal giudice di primo grado (e testualmente riportato ai ff. 21.22 della sentenza oggi impugnata), secondo il quale “il P….aveva rappresentato all’assemblea la necessità di realizzare dei lavori di adeguamento della sede dell’istituto definiti necessari ed urgenti dall’ing. Ca. con nota indirizzata all’istituto e depositata il 20.11.1991, tra i quali l’installazione di fasce in lamiera sulla ringhiera di protezione della scala elicoidale per renderla conforme alla normativa antinfortunistica, e l’assemblea, dopo ampia discussione, aveva deliberato di dar mandato all’ing. Ca. perchè provvedesse alla progettazione dei lavori necessari”.

L’obbligo di impedire l’evento dannoso gravava, pertanto, sugli organi apicali dell’ente – consiglio di amministrazione e presidente, quest’ultimo obbligato anche ai sensi dell’art. 5, comma 4, dello statuto, a mente del quale egli aveva il potere di adottare eccezionalmente i provvedimenti di urgenza salvo ratifica del consiglio.

A non diversa conclusione (come rettamente opinato dal giudice di prime cure) sarebbe dovuto giungere la corte territoriale con riguardo alla posizione del Marzullo, cui competevano incombenze tipiche di vigilanza ed attuazione delle delibere del C.d.A., nella qualità di consegnatario del patrimonio immobiliare, di direttore del personale, di garante del buon funzionamento dell’ente e di partecipante alle determinazioni dell’assemblea con voto consultivo, con conseguente configurabilità di un dovere di informazione e conoscenza della concreta situazione delle strutture entro le quali il personale era chiamato ad operare, di un altrettanto ineludibile dovere di segnalazione delle eventuali fonti di pericolo derivanti da carenze strutturali dei manufatti esistenti, di un conclusivo potere di adozione di rimedi provvisori attingendo all’apposito fondo cassa, di un ulteriore potere di segnalazione della necessità di inibire l’uso delle strutture pericolose (quali, appunto, la scala sulla quale ebbe a verificarsi l’incidente): non appare senza significato la incontestata circostanza, indicata dal ricorrente An. al folio 23 del suo ricorso incidentale condizionato, secondo la quale il Marzullo, a seguito dei rilievi mossi dagli ispettori del lavoro e dopo soli sei giorni dall’incidente, dette incarico all’ing. Ca. di procedere alla realizzazione dei lavori urgenti di messa in sicurezza della scala medesima.

All’accoglimento del motivo così esaminato consegue la impredicabilità di qualsivoglia ipotesi di assoluzione da responsabilità dell’ente vinicolo – così dovendosi interpretare, in parte qua, l’accoglimento del relativo ricorso principale – che andrà conseguentemente dichiarata in sede di rinvio.

b) Il ricorso incidentale non condizionato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1227 c.c., comma 1, in relazione agli artt. 2043, 2087 e 2056 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, con specifico riferimento ai principi di diritto che regolano il concorso di colpa del danneggiato negli infortuni sul lavoro)/omessa e contraddittoria motivazione in relazione al capo della sentenza relativo alla condotta alternativa lecita che il danneggiato avrebbe dovuto tenere al fine di evitare il danno (art. 360 c.p.c., n. 5). Insussistenza del concorso di colpa.

La censura non può essere accolta.

La inconferenza del richiamo ai principi dettato in tema di rischio professionale e di rischio c.d. “ulteriore” appare evidente volta che, facendo corretto uso del proprio potere di (ri)valutazione del fatto, la corte territoriale (ff. 41 ss. della sentenza impugnata) ha, con ragionamento probatorio scevro da vizi logico-giuridici, ravvisato profili di colpa nella condotta del danneggiato tanto ex intervallo – nel periodo anteriore all’avverarsi del sinistro -, quanto in continenti – e cioè in occasione del sinistro stesso, quando, a detta del giudice palermitano, “lo spirito di cortesia nei confronti del militari spinse l’ An. ad un comportamento imprudente”.

Le censure mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata, pertanto, nel loro complesso, pur formalmente proposte sotto la veste di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e di decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 n. 5 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso del precedente grado del procedimento, in una dimensione motivatamente difforme da quanto opinato in prime cure, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2059 c.c. in relazione agli artt. 2 e 3 Cost., e D.P.R. 3 marzo 2009, art. 5, lett. e) con specifico riferimento al principio di diritto dell’autonomo riconoscimento del danno morale (art. 360 c.p.c., n. 3); difetto e contraddittoria motivazione in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione del danno non patrimoniale nel suo complesso (art. 360 c.p.c., n. 5).

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2059 c.c. in relazione agli artt. 2, 4 e 29 Cost.) con specifico riferimento alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti (art. 360 c.p.c., n. 3); insufficiente motivazione in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione del danno non patrimoniale nel suo complesso per non aver tenuto conto della lesione di tutti gli interessi costituzionalmente protetti (art. 360 c.p.c., n. 5).

Entrambi i motivi sono fondati.

Lamenta il ricorrente che la Corte palermitana, diversamente da quanto opinato dal giudice di prime cure, avrebbe illegittimamente omesso di riconoscere e liquidare autonomamente il danno morale subiettivo patito dall’ An..

Lamenta poi lo stesso ricorrente che il giudice d’appello avrebbe omesso di valutare correttamente le conseguenze, sul piano del danno non patrimoniale, della definitiva compromissione delle normali potenzialità di esplicazione e realizzazione della personalità del danneggiato, tanto in ambito familiare (ivi compreso il diritto all’esplicazione della sessualità irrimediabilmente compromesso) quanto in ambito professionale e di relazione con soggetti terzi.

Osserva, nel richiamare la più giurisprudenza di questa corte, che l’autonomia del danno morale risulta sancita per via normativa, in epoca successiva alle sentenza 11.11.2008 delle sezioni unite di questa corte, dai D.P.R. n. 37 del 2009, e D.P.R. n. 181 del 2009.

Rileva, sotto altro profilo, la illegittimità dell’esclusione di ogni riconoscimento alla lesione del diritto dell’ An. alla realizzazione ed esplicazione della persona in ambito tanto familiare quanto lavorativo e sociale.

Le censure devono essere accolte entro i limiti di cui si dirà. Va premesso come questa stessa Corte regolatrice, in più di un’occasione (Cass. 28407/2008; 29191/2008; 5770/010; 18641/011) abbia avuto modo di predicare, in tema di danno morale e di danno “relazionale”, i principi di diritto alla cui riaffermazione legittimamente anela il ricorrente.

In particolare, con la recente pronuncia n. 20292 del 2012, si è affermato, in motivazione, quanto segue:

Un più ampio panorama dello stato della giurisprudenza, di legittimità e costituzionale, sino a tutto il 2006 – secondo una ricognizione oggi imposta dall’assai parziale richiamo ad un singolo e non significativo passaggio della sentenza 8827/2003 – consente al collegio una prima considerazione (peraltro non indispensabile, alla luce dei successivi interventi compiuti dal legislatore, a livello di normativa primaria e secondaria, all’indomani delle sentenze dell’11 novembre 2008): un indiscusso e indiscutibile formante giurisprudenziale di un altrettanto indiscutibile “diritto vivente”, così come predicato ai suoi massimi livelli, era, sino a tutto l’anno 2006, univocamente indirizzato nel senso della netta separazione, concettuale e funzionale, del danno biologico, del danno morale, del danno derivante dalla lesione di altri interessi costituzionalmente protetti.

In tale ottica, le stesse “tabelle” in uso presso il tribunale di Milano – che questa stessa Corte eleverà, con la sentenza 12408/2011, a dignità di generale parametro risarcitorio per il danno non patrimoniale – ne prevedevano una separata liquidazione, indicando, in particolare, nella misura di un terzo la percentuale di danno biologico utilizzabile come parametro per la liquidazione del (diverso) danno morale subbiettivo.

Le norme di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005), calate in tale realtà interpretativa, non consentivano (nè tuttora consentono), pertanto, una lettura diversa da quella che predicava la separazione tra i criteri di liquidazione del danno biologico in esse codificati e quelli funzionali al riconoscimento del danno morale: in altri termini, la “non continenza”, non soltanto ontologica, nel sintagma “danno biologico” anche del danno morale.

Nella liquidazione del danno biologico, invece, il legislatore del 2005 ebbe a ricomprendere quella categoria di pregiudizio non patrimoniale – oggi circoscritta alla dimensione di mera voce descrittiva – che, per voce della stessa Corte costituzionale, era stata riconosciuta e definita come danno esistenziale: è lo stesso Codice delle assicurazioni private a discorrere, difatti, di quegli aspetti “dinamico relazionali” dell’esistenza che costituiscono danno ulteriore (rectius, conseguenza dannosa ulteriormente risarcibile) rispetto al danno biologico strettamente inteso come compromissione psicofisica da lesione medicalmente accertabile. L’aumento percentuale del risarcimento riconosciuto in funzione del punto invalidità, difatti, non è altro che il riconoscimento di tale voce descrittiva del danno, e cioè della descrizione degli ulteriori patimenti che, sul piano delle dinamiche relazionali, il soggetto vittima di una lesione medicalmente accertabile subisce e di cui (se provati) legittimamente avanza pretese risarcitorie.

Ma quid iuris qualora (come nella specie) un danno biologico manchi del tutto, e il diritto costituzionalmente protetto (quello che le sentenze del 2003 definirono, con terminologia di più ampio respiro, in termini di “valore” e/o “interesse” costituzionalmente protetto) risulti diverso da quello di cui all’art. 32 Cost., sia cioè, altro dal diritto alla salute (che il costituente, non a caso, ebbe cura di non definire inviolabile – al pari della libertà, della corrispondenza e del domicilio – bensì fondamentale)? Quanto al danno morale, ed alla sua autonomia rispetto alle altre voci descrittive di danno (e cioè in presenza o meno di un danno biologico o di un danno “relazionale”), questa Corte, con la sentenza 18641/2011, ha già avuto modo di affermare quanto segue:

“La modifica del 2009 delle tabelle del tribunale di Milano – che questa Corte, con la sentenza 12408/011 (nella sostanza confermata dalla successiva pronuncia n. 14402/011) ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il territorio nazionale – in realtà, non ha mai cancellato la fattispecie del danno morale intesa come voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale: nè avrebbe potuto farlo senza violare un preciso indirizzo legislativo, manifestatosi in epoca successiva alle sentenze del 2008 di queste sezioni unite, dal quale il giudice, di legittimità e non, non può in alcun modo prescindere, in una disciplina (e in una armonia) di sistema che, nella gerarchia delle fonti del diritto, privilegia ancora la disposizione normativa rispetto alla produzione giurisprudenziale. L’indirizzo di cui si discorre si è espressamente manifestato attraverso la emanazione di due successivi D.P.R. n. 31 del 2009, e il D.P.R. n. 191 del 2009, in seno ai quali una specifica disposizione normativa (l’art. 5) ha inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere, morfologicamente prima ancora che funzionalmente, all’indomani delle pronunce delle sezioni unite di questa corte (che, in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un principio di diritto volto alla soppressione per assorbimento, ipso facto, del danno morale nel danno biologico, avendo esse viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi dell’evidenza probatoria, duplicazioni risarcitorie) tra la voce di danno c.d. biologico da un canto, e la voce di danno morale dall’altro: si legge difatti alle lettere a) e b) del citato art. 5, nel primo dei due provvedimenti normativi citati: – che la percentuale di danno biologico è determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni; – che la determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto dell’entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all’evento dannoso, in misura fino a un massimo di due terzi del,valore percentuale del danno biologico”.

Quanto, in particolare, al c.d. “danno parentale” la sentenza specifica ancora come “Vadano senz’altro ristorati anche gli aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale inteso come danno esistenziale… al cui proposito approfondita si appalesa la disamina della corte territoriale che, dopo aver ricostruito la vicenda in termini di eccezionalità sotto il profilo dinamico- relazionale della vita dei genitori del piccolo tetraplegico, ha poi altrettanto correttamente ritenuto di conservare un ancoraggio alla liquidazione del danno biologico quale parametro di riferimento equitativo non del tutto arbitrario del danno parentale, quantificando – con apprezzamento di fatto scevro da errori logico giuridici e pertanto incensurabile in questa sede – il danno stesso in una percentuale (l’80%) del pregiudizio biologico risentito dal minore”.

Non sembrò revocabile in dubbio alla Corte, e non sembra revocabile in dubbio oggi al collegio, che, nella più ampia dimensione del risarcimento del danno alla persona, la necessità di una integrale riparazione del danno parentale (secondo i principi indicati dalla citata Cass. ss.uu. 26972/08) comporti che la relativa quantificazione debba essere tanto più elevata quanto più grave risulti il vulnus alla situazione soggettiva tutelata dalla Costituzione inferto al danneggiato, e tanto più articolata quanto più esso abbia comportato un grave o gravissimo, lungo o irredimibile sconvolgimento della qualità e della quotidianità della vita stessa.

Sulla base di tali premesse, e sgombrato il campo da ogni possibile equivoco quanto alla autonomia del danno morale rispetto non soltanto a quello biologico (escluso nel caso di specie), ma anche a quello “dinamico relazionale” (predicabile pur in assenza di un danno alla salute), va affrontata e risolta la questione, specificamente sottoposta oggi dal ricorrente incidentale al vaglio di questa Corte, della legittimità di un risarcimento di danni “esistenziali” così come riconosciuti dalla corte di appello di Potenza.

Questione da valutarsi, non diversamente da quella afferente al danno morale, alla luce del dictum dalle sezioni unite di questa corte nel 2008, che lo ricondussero, in via di principio, a species descrittiva di danno inidonea di per sè a costituirne autonoma categoria risarcitoria.

Un principio affermato, peraltro, nell’evidente e condivisibile intento di porre un ormai improcrastinabile limite alla dilagante pan- risarcibilità di ogni possibile species di pregiudizio, benchè priva del necessario referente costituzionale, e sancito con specifico riferimento ad una fattispecie di danno biologico.

Un principio che, al tempo stesso, affronta e risolve positivamente la questione della risarcibilità di tutte quelle situazioni soggettive costituzionalmente tutelate (diritti inviolabili o anche “solo” fondamentali, come l’art. 32 Cost., definisce la salute) diversi dalla salute, e pur tuttavia incise dalla condotta del danneggiante oltre quella soglia di tollerabilità indotta da elementari principi di civile convivenza (come pure insegnato dalle stesse sezioni unite).

Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione che discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo – così dettando un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale alla persona per il terzo millennio.

La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta risposte al quesito circa la “sopravvivenza” – predicata dalla corte di appello lucana – del c.d. danno esistenziale, se è vero come è vero che “esistenziale” è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza, si, ma autonoma, della lesione medicalmente accertabile.

Prova ne sia che un danno biologico propriamente considerato – un danno, cioè, considerato non sotto il profilo eventista, ma consequenzialista – non sarebbe legittimamente configurabile (sul piano risarcitorio, non ontologico) tutte le volte che la lesione (danno evento) non abbia procurato conseguenze dannose risarcibili al soggetto: la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco ad essere estirpato dal (costoso) dentista è certamente una “lesione medicalmente accertabile”, ma, sussunta nella sfera del rilevante giuridico (id est, del rilevante risarcitorio), non è (non dovrebbe) essere anche lesione risarcibile, poichè nessuna conseguenza dannosa (anzi..), sul piano della salute, appare nella specie legittimamente predicabile (la medesima considerazione potrebbe svolgersi nel caso di frattura di un arto destinato ad essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico nell’ambito di una specifica terapia ossea che attende di lì a poco il danneggiato).

La mancanza di “danno” (conseguenza dannosa) biologico, in tali casi, non esclude, peraltro, in astratto, la configurabilità di un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) e di un possibile danno “dinamico-relazionale”, sia pur circoscritto nel tempo.

Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura delle sentenze delle sezioni unite del 2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato l’indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (il rapporto familiare e parentale, l’onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all’ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale).

Una indiretta quanto significativa indicazione in tal senso potrebbe essere rinvenuta nel disposto dell’art. 612-bis del codice penale, che, sotto la rubrica “Atti persecutori”, dispone che sia “punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale – i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore interiore, e la significativa alterazione della vita quotidiana.

Danni diversi e, perciò solo, entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni (che anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita “esterna” per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa).

E’ lecito ipotizzare, come sostiene il ricorrente incidentale, che la categoria del danno esistenziale risulti “indefinita e atipica”.

Ma ciò è la probabile conseguenza dell’essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, “indefinita e atipica”.

Il Collegio ritiene di dover dare ulteriore continuità a tali principi, con conseguente accoglimento dei motivi in esame.

Con il quarto motivo, si denuncia difetto di motivazione in ordine alla compensazione delle spese del giudizio di secondo grado.

La censura è assorbita dall’accoglimento dei due motivi di ricorso che precedono, dovendosi rimettere al giudice del rinvio ogni decisione in ordine ad un nuovo riparto delle spese processuali.

P.Q.M.

La corte, decidendo sui ricorsi riuniti:

– accoglie, nei limiti di cui in motivazione, quello principale dell’Istituto regionale della Vite e del Vino;

– accoglie l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato An.;

– accoglie il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale non condizionato An., dichiarandone assorbito il quarto;

– accoglie il ricorso incidentale A.;

– rigetta il primo motivo del ricorso incidentale non condizionato An.;

– cassa entro i limiti del predetto accoglimento la sentenza impugnata e rinvia il procedimento, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Palermo in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2013

 

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