Tribunale di Trento, sentenza del 06.05.2014
Il Giudice Trentino provvede a dichiarare inammissibile l’intervento volontario spiegato dalla Compagnia di Assicurazione dell’attore/danneggiato, per difetto di interesse non potendosi costringere lo stesso a difendersi contro un soggetto che ha consapevolmente scelto di non evocare in giudizio.
LA SENTENZA INTEGRALE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TRENTO
SEZIONE CIVILE
in composizione monocratica,
terminata la discussione orale, pronunzia, mediante lettura in udienza (art. 281 sexies c.p.c.), la presente
SENTENZA
nel proc. n. *******/2013 RG (n. **/2013 RG sezione distaccata di Tione di Trento)
promosso da
C.R.
contro
S.M. e U. ASSICURAZIONI SPA
con l’intervento volontario di
A. SPA
OGGETTO: risarcimento danni da sinistro stradale
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La presente motivazione viene redatta nella forma prevista dall’art. 132 n. 4 c.p.c. (come modificato dall’art.45, comma 17, della L. 18 giugno 2009, n. 69), in base al quale la sentenza deve contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” (il testo precedente prevedeva invece che la sentenza contenesse “la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione”). L’art. 118 disp. att. c.p.c. (nel testo introdotto dall’art. 52, comma 5, della cit. L. 18 giugno 2009, n. 69), precisa inoltre che “la motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4), del codice, consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi” (secondo il testo precedente, invece che, la motivazione consisteva nell’esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione).
Per effetto dell’art. 58, comma 2, della cit. L. 18 giugno 2009, n. 69, i predetti art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della legge, avvenuta il 4.07.2009. Di qui, la presente motivazione, redatta nella nuova forma.
Ciò premesso, C.R. premesso di essere rimasto vittima di un sinistro stradale avvenuto verso le ore 16.10 del 13.06.2010 mentre a bordo della propria motocicletta H. targata (…) percorreva la strada statale n. 237 al km 93+751, ha convenuto – innanzi alla ormai soppressa Sezione distaccata di Tione di Trento – S.M., proprietario e conducente dell’autoveicolo Audi targato (…), e la U. Assicurazioni spa, al fine sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni subiti (sia il danno biologico sia il danno materiale), indicati rispettivamente in Euro 142.459,80 ed Euro 3.690,59, oltre accessori di legge.
S.M. e U. Assicurazioni spa, costituitisi con lo stesso difensore, resistono.
E’ intervenuta volontariamente in giudizio anche A. spa.
La causa è stata istruita solo mediante produzioni documentali, giacché le istanze istruttorie orali e di ctu sono state respinte in quanto superflue.
Ciò premesso, ritiene questo Tribunale che la domanda risarcitoria sia manifestamente infondata.
Va infatti evidenziato che, come si legge chiaramente dal rapporto redatto dai Carabinieri di S. (prodotto integralmente dai convenuti sub doc. 1; l’attore, invece, ha ritenuto di produrne solo una parte, sub doc. 2), il sinistro è accaduto per colpa esclusiva proprio dell’attore, giacché questi, in sella alla propria moto, uscito dalla galleria “Scuro”, ha ritenuto di effettuare una manovra di sorpasso (in sé non vietata, trattandosi di strada rettilinea con linea di mezzeria tratteggiata), della autovettura Lancia Y (condotta dalla sig.ra M.M., assunte a sommarie informazioni dalla cit. P.G.), senza peraltro accorgersi (come da lui stesso confessato ai Carabinieri), che, più avanti della Lancia Y, nella stessa direzione viaggiava l’Audi guidata dal convenuto S.M., la quale, dopo aver tempestivamente azionato l’indicatore di direzione sinistro, aveva quasi già terminato la legittima manovra di svolta a sinistra, entrando in una piazzola di sosta, come conferma il fatto che il motociclo ha urtato l’Audi nella parte finale della fiancata sinistra.
Alla luce di tale dinamica del sinistro, che si evince chiaramente dal predetto rapporto dei Carabinieri, non si vede proprio quale responsabilità possa avere S.M..
Di qui il rigetto della domanda risarcitoria proposta da C.R..
Tra questi ed i convenuti, le spese di giudizio seguono la soccombenza.
In relazione all’intervento volontario di A. spa (che assicura l’attore), esso deve invece essere dichiarato inammissibile d’ufficio (sulla rilevabilità d’ufficio, cfr. Cass., sez. I, 26.03.1974, n. 824; e Cass. 23.06.1949, n. 1568), in quanto non è senz’altro all’uopo sufficiente che detta Compagnia sia stata destinataria di una richiesta stragiudiziale di risarcimento diretto da parte dell’attore. Appare infatti decisivo osservare che detta procedura di risarcimento diretto (ex art. 149 del codice delle assicurazioni di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209), è ammessa solo in caso di danni materiali e/o di danni alle persone contenuti nei limiti previsti dall’art. 139 dello stesso codice, pari al massimo al 9% di invalidità: limite nella specie senz’altro superato, atteso che nell’atto di citazione è stato indicato un danno biologico del 26-28%. Non si comprende allora che interesse giuridico – ex art. 105 c.p.c. – abbia A. spa ad essere parte del presente giudizio. Sotto altro profilo, va condivisa la tesi di Giudice di pace Palermo, sez. VI, 12.07.2013, in base alla quale il nuovo sistema di risarcimento diretto del danneggiato, introdotto dal codice delle assicurazioni, non consente di ritenere escluse le azioni già previste in favore del danneggiato, con la conseguenza che permane in capo allo stesso la facoltà di scegliere di procedere nei confronti dell’impresa assicuratrice del responsabile civile, per cui l’azione ex cit. art. 149, deve ritenersi alternativa e non anche esclusiva. Ne consegue che, nel giudizio promosso nei confronti del responsabile civile e dell’impresa di assicurazioni del medesimo, è inammissibile, per difetto di interesse, l’intervento volontario spiegato dall’assicurazione dello stesso danneggiato, non potendosi costringere lo stesso a difendersi contro un soggetto che ha consapevolmente scelto di non evocare in giudizio.
L’incertezza della questione circa l’ammissibilità dell’intervento, suggerisce di compensare le spese di giudizio nei confronti di A. spa.
Ritiene infine il Tribunale che, nei rapporti tra l’attore ed i convenuti, debba avere anche luogo la pronunzia prevista dal nuovo art. 96, terzo comma, c.p.c. (inserito dall’art. 45, comma 12, della L. 18 giugno 2009, n. 69), in base al quale “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
La novità legislativa ha radici antiche.
“Nunc admonendi sumus magnam curam egisse eos, qui iura sustinebant, ne facile homines ad litigandum procederent: quod et nobis studio est”.
Inizia così il titolo 16 del libro IV (De poena temere litigantium) delle Istituzioni di Giustiniano. L’imperatore fa propria la preoccupazione, che era già stata degli antichi, di evitare che si litighi in giudizio facilmente. Più precisamente, egli ribadisce l’esigenza di sanzionare il temere litigare, vale a dire il comportamento dell’attore o del convenuto che agisce o resiste in giudizio (litigare) sconsideratamente (temere).
Nello stesso senso, nel 1748, era stato scritto che “Quando la nuova arte della procedura moltiplicò i processi e li rese eterni; quando la scienza di eludere le istanze più giuste si fu raffinata; quando un litigante imparò a fuggire unicamente per farsi inseguire; quando l’istanza divenne rovinosa e la difesa tranquilla; quando le ragioni andarono perdute sotto volumi di parole e di iscritti; quando tutto fu pieno di campioni della giustizia che non dovevano render giustizia; quando la cattiva fede trovò dei consigli laddove non trovò degli appoggi, fu necessario arrestare i litiganti col timore delle spese” (Montesquieu, Lo spirito delle leggi).
Passando quindi all’art. 370 c.p.c abr., esso disponeva: “La parte soccombente è condannata nelle spese del giudizio, e trattandosi di lite temeraria, può inoltre essere condannata al risarcimento dei danni”. Oltre a tale previsione di carattere generale, nel vecchio codice di rito vi erano altre singole ipotesi nelle quali dall’esito negativo di un certo procedimento, sorgeva a carico della parte soccombente l’obbligo non solo di rifondere alla parte avversaria le spese giudiziali, ma anche quello di risarcirle i danni subiti. In tema di sequestro, ad esempio, l’art. 935 c.p.c. abr. disponeva: “Quando il sequestro sia riconosciuto senza causa e per ciò revocato, il sequestrante può essere condannato in una multa estensibile a lire mille, oltre al risarcimento dei danni”. In tema di querela di falso, poi, l’art. 314 c.p.c. abr. prevedeva che qualora essa fosse respinta, il querelante soccombente venisse condannato al risarcimento dei danni ed a una multa estensibile fino a lire cinquecento.
Il codice di rito vigente ha unificato le ipotesi nelle quali la soccombenza può determinare, oltre alla condanna alla spese, anche quella al risarcimento dei danni. Come noto, la disciplina è attualmente contenuta esclusivamente nell’art. 96 c.p.c., intitolato “responsabilità aggravata”.
La disposizione non menziona più la lite temeraria, ma la responsabilità aggravata. Nonostante questo, l’espressione “lite temeraria” ricorre ancor oggi frequentemente nel linguaggio della dottrina e della giurisprudenza (temerarietà peraltro menzionata ancor oggi dall’art. 26, secondo comma, del c.p.a., come sostituito dall’art. 1 del D.Lgs. n. 195 del 2011).
Il cit. nuovo terzo comma dell’art. 96 c.p.c., si caratterizza essenzialmente per il fatto che la condanna può essere pronunziata anche d’ufficio (a prescindere anche dalla necessità di instaurare il contradditorio sul punto, come avviene anche per la pronunzia sulle spese), nonché per il fatto che la somma oggetto della condanna va determinata equitativamente.
Puntualizzato che occorre sempre il requisito del dolo o della colpa grave del soccombente, previsto dal primo comma dello stesso art. 96 c.p.c., ad avviso di questo Tribunale le relative nozioni vanno rinvenute nella ancora insuperata opinione dottrinale in base alla quale “lite temeraria è la lite la cui ingiustizia è più completa, perché sta nell’animo stesso del litigante: la temerità è la coscienza dell’ingiusto, dell’aver torto. L’animo del litigante sfugge per sua natura alla indagine diretta: e però l’indagine si basa sulle presunzioni che nascono dalla natura stessa del litigio. Quando la pretesa o la resistenza è così infondata, così chiaramente infondata, da apparir tale a chiunque ed allo stesso litigante, pur tenendogli conto dell’accecamento prodottogli dall’interesse, diciamo che quel litigante è temerario. Si presume che costui abbia fatta la lite conoscendo d’aver torto; non è escluso ch’egli potesse credere il contrario; basta che la infondatezza della lite sia tale, che il non vederla costituisca in colpa così lata, da equipararsi al dolo. La temerità è dunque propria della lite stessa … Vi sono poi casi intermedi, in cui la lite non è per sé stessa temeraria, ma può essere o non essere, secondo le condizioni soggettive del litigante; come quando la temerità dipendesse dal conoscere o non una circostanza di fatto: in tal caso sarebbe temerario il litigante che negasse un fatto suo proprio che risulti provato, o un fatto ch’egli doveva conoscere, o affermasse un fatto che dovea conoscer come inesistente … il dolo del temerario litigante concretandosi nella coscienza del proprio torto, non è necessario ch’emerga lo spirito vessatorio, il deliberato proposito di recar danno”.
Nella fattispecie il requisito del dolo-colpa grave emerge senz’altro dalle modalità in cui è avvenuto il sinistro, delle quali l’attore non poteva che essere a perfetta conoscenza, considerando la piena confessione resa dal medesimo ai Carabinieri di Storo, nonché la chiarezza degli accertamenti diligentemente compiuti dai medesimi, di cui l’attore era – o doveva essere a conoscenza – prima del giudizio.
Nella determinazione equitativa della somma, ritiene il giudicante di condividere quell’opinione dottrinale che prende in considerazione, oltre al contegno processuale e pre-processuale della parte soccombente, anche la diseguaglianza economica esistente tra quest’ultima e la parte vittoriosa. Stimasi pertanto equa, complessivamente per entrambi i convenuti, una somma pari alle spese di giudizio, la cui la cui liquidazione deve essere effettuata in base ai criteri previsti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, atteso che l’art. 28 dello D.M. 10 marzo 2014, n. 55 prevede che essi debbano applicarsi alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore, avvenuta il 3.04.2014.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunziando, dichiara inammissibile l’intervento volontario di A. spa e compensa le spese di giudizio nei confronti di costei.
Rigetta la domanda principale.
Condanna l’attore a rifondere ai convenuti le spese di giudizio, liquidate complessivamente in Euro 5.000,00 per compenso professionale, oltre accessori di legge.
Condanna il medesimo a pagare agli stessi convenuti la complessiva somma di Euro 5.000,00 con interessi legali dalla data odierna fino al saldo.
Così deciso in Trento, il 6 maggio 2014.
Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2014.