Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., 16-05-2017, n. 12038
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
La responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva (anche per violazione del dovere di informazione), ed il risultato derivatone.
L’ORDINANZA
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che, con ricorso affidato a tre motivi, la CO.M.I. -Compagnia Meridionale Impianti – s.r.l. ha impugnato la sentenza della Corte di appello di Napoli, in data 22 luglio 2015, che aveva soltanto in parte accolto il gravame interposto dalla stessa società avverso la sentenza del Tribunale di Napoli, riliquidando il credito per competenze professionali azionato in giudizio dall’avv. C.A., ma – per quanto rileva in questa sede – confermando il rigetto della domanda riconvenzionale di danni per responsabilità professionale del medesimo legale, per mancato assolvimento dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., non avendo la CO.M.I. s.r.l. “in alcun modo dimostrato, ma invero neppure dedotto, quali risultati utili avrebbe potuto ottenere da una condotta diligente e, soprattutto, in quali concreti atti tale attività supposta come diligente avrebbe dovuto concretarsi”, nè essendo “indicato specifiche e concrete lesioni alla sfera giuridico patrimoniale dell’istante, che giustifichino l’accoglimento della domanda in esame”;
che resiste con controricorso l’avvocato C.A.;
che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata comunicata alle parti costituite, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale le anzidette parti hanno depositato memoria;
che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.
Considerato che, con il primo mezzo, è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 278 c.p.c., art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., per aver la Corte territoriale erroneamente applicato i principi in materia di condanna generica (tale essendo la domanda di danni proposta contro il C.), che riservano alla fase successiva della determinazione del quantum l’indagine sulla sussistenza in concreto del danno, avendo ritenuto non assolto l’onere di prova nonostante fosse stato dedotto e provato sia la condotta di inadempimento del professionista, sia l’inesistenza di qualsiasi chance “di ottenere un risultato utile qualunque fosse stata la pronuncia giudiziale”, ciò costituendo “di per sè evento potenzialmente generatore di danno in quanto di per sè idoneo e ridurre per il cliente la possibilità (quanto meno) di accollarsi costi assolutamente inutili nonchè di evitare la soccombenza in giudizio”;
che, con il secondo e terzo mezzo, è prospettata, rispettivamente, motivazione inesistente e vizio di ultrapetizione circa la domanda di condanna generica, proposta dalla CO.M.I. s.r.l. e non considerata dal giudice di appello;
che i motivi – da potersi scrutinare congiuntamente (e alle cui ragioni nulla aggiunge la memoria del ricorrente, la quale, in ogni caso, avendo solo funzione illustrativa, non può integrare carenze o emendare vizi dell’atto di impugnazione) – sono inammissibili;
che essi, pur distinti nel tipo di censura, muovono dal comune presupposto che la questione di fondo sia l’errore (in iudicando o in procedendo o di motivazione) della Corte territoriale sulla domanda di condanna generica al risarcimento danni per responsabilità professionale avanzata, ex art. 278 c.p.c., con ciò palesando di non aver affatto colto la ratio decidendi della sentenza impugnata, che non ha travisato il portato di detta norma processuale (o mancato di considerare la pretesa azionata dalla CO.M.I.), mantenendo la propria pronuncia nell’alveo del “chiesto” e senza errori in diritto;
che, difatti, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio, consolidato, secondo cui la responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente (e deve essere provato dall’istante quale concreto pregiudizio subito in conseguenza dell’illecito contrattuale: tra le altre, Cass., 9 giugno 2004, n. 10966; Cass., 23 marzo 2006, n. 6537) e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva (anche per violazione del dovere di informazione), ed il risultato derivatone (tra le altre, Cass., 7 agosto 2002, n. 11901; Cass., 5 febbraio 2013, n. 2638);
che sulla scorta di detto principio il giudice di appello ha, poi, escluso non solo che vi fosse stata prova, ma, ancor prima, allegazione fattuale degli elementi anzidetti, tutti integranti la fattispecie di responsabilità professionale dell’avvocato; statuizione che, nella sua complessiva e specifica portata, non è affatto attinta dalle doglianze proposte dalla parte ricorrente, che insistono sul solo (e come tale insufficiente) profilo del “danno potenziale” ai fini della declaratoria iuris ai sensi art. 278 c.p.c. (e ciò anche a prescindere dal rilievo che il danno cui si riferisce la norma dell’art. 278 c.c., è quello “conseguenza” e non già il danno evento che attiene al profilo della responsabilità);
che, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile e la società ricorrente condannata al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo in conformità ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.900,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 3 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16 marzo 2017.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2017