Cassazione civile, Sez. II, Sentenza 16-03-2018, n. 6552
La sentenza emarginata si distingue poiché, oltre a ripercorrere l’orientamento consolidato secondo cui il diritto alla provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, fa un passo in avanti, sino a giungere a ritenere che la condizione sottesa al diritto alla provvigione sia l’identità dell’affare proposto con quello concluso che non è esclusa neppure quando le parti sostituiscano altri a sè nella stipulazione conclusiva.
In particolare, gli Ermellini precisano che “la condizione perchè sorga il diritto alla provvigione è l’identità dell’affare proposto con quello concluso, che non è esclusa quando le parti sostituiscano altri a sè nella stipulazione conclusiva, sempre che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto in sede di stipulazione negoziale. E, dunque, nel caso in cui il soggetto intermediato sostituisca altri a sè nella stipulazione del contratto, debitore della provvigione resta pur sempre la parte originaria, essendo costei la persona con cui il mediatore ha avuto rapporti (Cass. n. 8407 del 2015 e n. 8850 del 2001).”
LA SENTENZA
(Omissis)
Svolgimento del processo
B.S., titolare della S.B. immobiliare, con due atti di citazione conveniva in giudizio davanti alla Pretura circondariale di Perugia, sezione distaccata di Todi, T.G. e S.A.. L’attore assumeva che T.O. (padre del convenuto) gli aveva dato incarico di reperire acquirenti per una tenuta in (OMISSIS) e che esso attore aveva posto costui in contatto con tale ” S.G. (o G.)”, risultato essere il convenuto S.A.; e che il figlio di questo, St.Gi. (col finanziamento della Cassa per la piccola proprietà contadina) aveva poi comprato con atto pubblico del 24 dicembre 1998, la predetta tenuta da T.G. e Ga., eredi di T.O. nelle more deceduto, al prezzo di Lire 1.220.000.000. Per la sua opera di mediazione, l’attore chiedeva la condanna dei convenuti (il primo quale erede di T.O.), ciascuno al pagamento a titolo di provvigione della somma di Lire 36.600.000 oltre IVA, per un importo di Lire 43.920.000.
Costituitisi entrambi i convenuti, e riuniti i giudizi, questi chiedevano il rigetto della domanda, assumendo che l’iniziale messa in contatto da parte dell’attore di T.O. con S.A. (interessato all’acquisto di terreni agricoli nella zona di (OMISSIS)) era stata del tutto casuale, e la conclusione del contratto de quo era avvenuta senza alcun altro contributo causale dell’attore.
Istruito il processo, il Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Todi, in accoglimento della domanda, condannava ciascuno dei convenuti al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 16.161,92 oltre IVA e interessi, ed in solido delle spese processuali.
La decisione veniva impugnata dai convenuti davanti alla Corte d’appello di Perugia che – sospesane la provvisoria esecutività nei confronti del solo T., e fino ai 2/3 della somma “precettata per sorte” – con la sentenza in esame, depositata il 10/01/2013 e notificata il 2/04/2013, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta dal B. contro lo S., condannava il T. al pagamento in favore del B. della somma di Euro 5.321,36 oltre IVA come per legge, dichiarava interamente compensate fra le parti le spese di entrambi i giudizi e condannava il B. alla restituzione ai convenuti di quanto ricevuto in più rispetto al dovuto in esecuzione della sentenza appellata.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Perugia, depositata il 10 gennaio 2013, B.S., in data 31 maggio 2013, ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi.
T.G. e S.A. hanno resistito con controricorso, il primo spiegando a sua volta, sulla base di tre motivi, ricorso incidentale, cui il ricorrente ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.
Motivi della decisione
1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la nullità della sentenza e/o del procedimento e la violazione di legge con riferimento all’art. 342 c.p.c.. La Corte territoriale avrebbe illegittimamente ed ingiustamente respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi, non rilevando in particolare l’insufficienza a tal fine della mera riproposizione delle doglianze già proposte in primo grado, e quindi implicitamente negando la necessità della indicazione di specifiche critiche alla motivazione della sentenza impugnata, tali da incrinarne il fondamento logico-giuridico.
1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) la violazione di legge e/o la falsa applicazione in relazione agli artt. 1754 e 1755 c.c., “salvo altri”; nonchè la violazione di legge, la nullità della sentenza e/o del procedimento in relazione agli artt. 113, 115, 116 e 132 c.p.c. “salvo altri”. Ciò in quanto la Corte perugina ha ritenuto fondata, con riferimento al solo S.A., l’eccezione di insussistenza del diritto del ricorrente alla provvigione poichè “l’affare sarebbe stato concluso da soggetti diversi da quelli posti in relazione dall’attore”, inquadrando la fattispecie nella “mediazione soggettivamente indiretta”.
1.3. – Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5) la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c.; per difetto di motivazione; per motivazione apparente; per omesso esame di un punto decisivo ai fini del giudizio. Ciò in quanto la Corte d’appello, pur dilungandosi nell’esame di questioni di fatto e di diritto, avrebbe confuso concetti di diritto e circostanza, tanto da non dar ragione del percorso logico/giuridico che ha governato la decisione, con riferimento, in particolare, all’accostamento della fattispecie de qua a quella della mediazione indiretta ed al completo fraintendimento del tema del mutamento soggettivo ai fini e per gli effetti di cui all’art. 1755, nonchè al mancato esame se la conclusione del contratto da parte di St.Gi. (figlio del controricorrente S.A.) sia causalmente ricollegabile all’attività del B. ovvero a circostanze del tutto autonome.
1.4. – Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) la nullità della sentenza e/o del procedimento e l’illegittimità della sentenza per violazione degli artt. 112, 115, 116, 183, 184 e 345 c.p.c., nella parte in cui riduce la condanna di T.G. ad un solo terzo della domanda, sul presupposto della natura di questi di mero coerede di T.O., assieme al fratello ed alla madre.
2.1. – Con il primo motivo di ricorso incidentale T.G. deduce che la sentenza impugnata – nella parte in cui afferma che T.O. sarebbe stato posto in relazione con S.A. dall’appellato in esecuzione dell’incarico ricevuto dal primo di trovare acquirenti per la tenuta dei figli (e della nuora), poi effettivamente venduta grazie a detta mediazione, sicchè T.G. quale erede del padre era tenuto alla relativa provvigione – incorre nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1754 c.c..
2.2. – Con il secondo motivo di ricorso incidentale T.G. deduce che la sentenza impugnata incorrendo ancora nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – avrebbe omesso un compiuto esame degli elementi a riprova che l’appellato non aveva svolto alcuna attività di mediazione suscettibile di aver determinato, secondo un rapporto di causa-effetto, la vendita del bene de quo.
2.3. – Con il terzo motivo di ricorso incidentale T.G., in via subordinata, denuncia ai sensi all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1755 c.c., nonchè la violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui la Corte d’appello, in assenza di prove, ha determinato la misura della provvigione dovuta, non già in via equitativa, bensì nella misura massima del 3%, secondo le tariffe della CCIAA. 3.1. – Il primo motivo del ricorso principale non è fondato.
3.2. – Il ricorrente osserva come la sentenza impugnata, pur dilungandosi nella elencazione dei passi dell’atto di appello dai quali dovrebbe risultare la specificità dello stesso, ossia dovrebbero emergere i motivi specifici dell’impugnazione (ex art. 342 c.p.c., ratione temporis nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012), non dia contezza della sussistenza di quegli elementi che la giurisprudenza di questa Corte reputa essenziali ai fini dell’ammissibilità dell’appello che coinvolga l’intera sentenza. Per il ricorrente mancherebbe, in particolare, qualsiasi riferimento alle specifiche critiche dei passi della sentenza impugnata, tali da contrastarne il contenuto logico giuridico.
3.3. – Proprio con riferimento al dettato dell’art. 342 c.p.c., anteriore alla riforma del 2012, questa Corte (ex plurimis, Cass. sez. un. n. 3033 del 2013) – sottolineato che l’originario connotato di novum iudicium del processo d’appello (disciplinato dal codice di rito del 1865), già notevolmente attenuato nel nuovo codice del 1940 dalle disposizioni contenute negli artt. 342, 345 e 346 c.p.c., a seguito delle profonde modifiche apportate dalla L. n. 353 del 1990, non è più riscontrabile nell’attuale processo civile, nel cui ambito il giudizio di secondo grado costituisce una revisio prioris instantiae, incanalata negli stretti limiti devoluti con i motivi di gravame – ha ribadito che, nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata. In sostanza (precisa Cass. sez. un. n. 28498 del 2005, sopra cit.), l’appello non rappresenta più, pur permanendo la sua funzione sostitutiva quanto alle statuizioni decisorie su diritti impugnati, il “mezzo” per “passare da uno all’altro esame della causa”, su tali statuizioni, e non può quindi limitarsi al fine di ottenerne la riforma, ad una denuncia generica dell’ingiustizia dei capi appellati della sentenza di primo grado, ma deve puntualizzarsi all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma “comunque” sostituiti dalla sentenza di appello (Cass. sez. un. n. 28498 del 2005). Pertanto, nel giudizio di appello la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi, con la conseguenza che tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che la sorreggono; pertanto nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame, consuma il diritto potestativo di impugnazione, deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame rilevabile d’ufficio, una parte argomentativa che contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (Cass. sez. un. n. 23299 del 2011; nonchè, Cass. n. 4068 del 2009; n. 18704 del 2015 e n. 12280 del 2016).
3.4. – Al fine quindi di verificare la corretta applicazione della norma in esame, che nella formulazione in questa sede rilevante ratione temporis disponeva che “l’appello si propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione, nonchè le indicazioni prescritte nell’art. 163 c.p.c.”, si deve ribadire che non si rivela sufficiente il fatto che l’atto d’appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. sez. un. n. 16 del 2000). Pertanto, l’atto di appello deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione e, quindi, non può non indicare le singole “questioni” sulle quali il giudice ad quem è chiamato a decidere, sostituendo o meno per ciascuna di esse soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure (Cass. sez. un. n. 28498 del 2005). Da ciò, la affermata inammissibilità dell’atto di appello redatto in modi non rispettosi dell’art. 342 c.p.c. (Cass. sez. un. n. 16 del 2000, cit.), senza però inutili formalismi e senza richiedere all’appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (v., tra le altre, Cass. 12984 del 2006; n. 9244 del 2007; n. 25588 del 2010; n. 22502 del 2014; n. 18932 del 2016; n. 4695 del 2017; tali principi hanno trovato conferma anche nelle sentenze delle Sezioni unite n. 28057 del 2008 e n. 23299 del 2011. Da ultimo, pur con riferimento agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, le Sezioni unite n. 27199 de 2017 affermato che è una regola generale quella per cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale – ha puntualizzato che essi vanno interpretati nel senso che “l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice”; ma che “resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”).
3.5. – Orbene, dalla sentenza appellata (pag. 9) e dal contenuto del ricorso in Cassazione (pagg. 9-10) si evince espressamente che gli appellanti avevano chiesto all’adita Corte di appello “la riforma della sentenza di primo grado, totale o parziale, con il rigetto in tutto o in parte della domanda attrice”, deducendo la pretesa omissione da parte del Tribunale di ogni riferimento agli argomenti o elementi di prova forniti dagli stessi convenuti a sostegno della richiesta di rigetto della domanda attorea; e sostenendo nel merito che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale non vi era stata nella fattispecie alcuna attività di mediazione da parte del B.; che sussisteva un difetto di motivazione in ordine alla eccezione di inesistenza, ai sensi dell’art. 1754 c.c., della conclusione di un affare tra T.O. e S.A., in quanto nè il primo è risultato venditore della azienda in questione, nè il secondo l’acquirente; che era stata omessa la decisione circa l’eccezione sollevata dai convenuti in ordine alla mancanza dei requisiti soggettivi in capo al B. per il diritto al pagamento della provvigione; che era stata altrettanto omessa la decisione in ordine alla riduzione ad un terzo della provvigione dovuta da T.G. quale coerede di T.O. insieme alla madre ed al fratello.
Pur in assenza di particolari formule sacramentali, l’impugnazione, seppure sinteticamente, individua sufficientemente le questioni ed i punti contestati della sentenza impugnata, argomentando in contrasto con le ragioni addotte dal primo giudice.
A fronte dell’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per eccepito difetto assoluto della specificità dei motivi, la Corte d’appello (correttamente, seppure altrettanto sinteticamente, in coerenza col sopra menzionato favore per le soluzioni dei problemi processuali che consentano che si pervenga a soluzioni di merito) ne ha dichiarato la non fondatezza (anche riguardo alla affermazione secondo la quale l’appellante non avrebbe dedotto alcuna violazione di legge e/o errore logico, ma solo un’erronea valutazione delle circostanze di fatto), “quasi che con l’appello si potessero dedurre solo quel tipo di errori, come nel ricorso per cassazione, e no anche, come invece è, semplici errori di fatto al di là di ogni errore logico nella motivazione”, laddove “i convenuti hanno dedotto (…) anche errori in rito e di diritto” (pag. 10 sentenza impugnata).
4. – Il secondo motivo è, invece, fondato.
4.1. – Rispondendo all’eccezione mossa dai convenuti appellanti, secondo cui nella specie il diritto alla provvigione sarebbe escluso dal fatto che l’affare sia stato concluso da soggetti diversi da quelli posti in relazione dall’attore, la Corte d’appello ne afferma la fondatezza, ritenendo la questione collegata alla c.d. mediazione soggettivamente indiretta, per la quale l’affare viene concluso da soggetti diversi da quelli posti in relazione dall’agente. Osserva la Corte d’appello che “nel caso di specie peraltro il problema non è se le parti che hanno concluso l’affare, diverse da quelle poste in relazione dal mediatore, siano o meno tenute alla provvigione (…), ma quello se siano tenute alla provvigione le parti poste in relazione dal mediatore anche se sono diverse da quelle che hanno poi concluso l’affare” (sentenza pag. 11). E conclude nel senso che la soluzione di tale problema “non possa che essere negativa, dovendosi l’art. 1755 c.c., evidentemente intendere nel senso che (tenute) al pagamento della provvigione sono le parti che hanno concluso l’affare per effetto dell’attività del mediatore”.
4.2. – Questa Corte ha ripetutamente affermato che il diritto alla provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, senza che sia richiesto un nesso eziologico diretto ed esclusivo tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare, essendo sufficiente, che il mediatore – pur in assenza di un suo intervento in tutte le fasi della trattativa ed anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo – abbia messo in relazione le stesse, sì da realizzare l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata. (Cass. n. 25851 del 2014, conforme a Cass. n. 28321 del 2005; cfr. pure Cass. n. 9984 del 2008 e n. 3438 del 2002). Ed ha ritenuto che, per il riconoscimento del diritto alla provvigione, non rileva se l’affare si sia concluso tra le medesime parti o tra parti diverse da quelle cui è stato proposto, allorchè vi sia un legame, anche se non necessariamente di rappresentanza, tra la parte alla quale il contratto fu originariamente proposto e quella con la quale è stato successivamente concluso, tale da giustificare, nell’ambito dei reciproci rapporti economici, lo spostamento della trattativa o la stessa conclusione dell’affare su un altro soggetto (Cass. 8126 del 2009; n. 20549 del 2004). Specificando, quindi, che il diritto del mediatore alla provvigione consegue non alla conclusione del negozio giuridico, ma dell’affare, inteso come qualsiasi operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio fra le parti, anche se articolatasi in una concatenazione di più atti strumentali, purchè diretti nel loro complesso a realizzare un unico interesse economico, anche se con pluralità di soggetti. Sicchè, la condizione perchè sorga il diritto alla provvigione è l’identità dell’affare proposto con quello concluso, che non è esclusa quando le parti sostituiscano altri a sè nella stipulazione conclusiva, sempre che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto in sede di stipulazione negoziale. E, dunque, nel caso in cui il soggetto intermediato sostituisca altri a sè nella stipulazione del contratto, debitore della provvigione resta pur sempre la parte originaria, essendo costei la persona con cui il mediatore ha avuto rapporti (Cass. n. 8407 del 2015 e n. 8850 del 2001).
4.3. – Pertanto, il richiamato assunto del giudice di appello, secondo cui l’art. 1755 c.c., deve intendersi nel senso che sono tenute al pagamento della provvigione solo le parti che hanno concluso l’affare per effetto dell’attività del mediatore, si configura come vizio di falsa applicazione della legge (rispetto alla fattispecie dedotta in giudizio). L’accoglimento, nei limiti indicati, del secondo motivo di ricorso, comporta altresì l’assorbimento dei restanti motivi.
5. – Quanto al ricorso incidentale proposto da T.G. – i cui motivi (sopra riportati sub 2.1.-2.3.) possono essere esaminati congiutamente, poichè tra loro connessi e tutti sviluppati in particolare sull’assunto della violazione da parte del giudice di appello dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (restando gli ulteriori vizi di cui al n. 3 di detto articolo relegati a generiche affermazioni non supportate specifici argomenti a sostegno della dedotta violazione di norme di diritto) – deve essere dichiarato non fondato.
5.1. – Occorre premettere che il presente ricorso è, ratione temporis, soggetto all’applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile, ex art. 54, comma 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge), a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
E’ noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consenta di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
4.3. – Nella specie il ricorrente incidentale sostanzialmente deduce, in termini assolutamente generali, che il percorso logico argomentativo, seguito dalla Corte territoriale per motivare la decisione impugnata, sarebbe compromesso da svariati palesi vizi ed incongruenze logico-giuridiche, che coinvolgerebbero la valenza probatoria degli interpelli e delle testimonianze, nonchè il relativo criterio valutativo di questi e l’utilizzazione come argomento di prova di elementi presuntivi ricavabili dagli atti.
Orbene – alla luce del sopra richiamato consolidato indirizzo giurisprudenziale relativo alla stretta latitudine della configurazione del vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo – le censure mosse dal ricorrente incidentale si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica di una inammissibile (ri)valutazione alternativa del complessivo contesto delle risultanze probatorie, antagonista rispetto a quella compiuta dalla Corte d’appello.
5. – In conclusione, va accolto, nei limiti indicati, il secondo motivo di ricorso, rimanendo assorbiti i motivi terzo e quarto; e vanno rigettati il primo motivo di ricorso principale ed i tre motivi di ricorso incidentale. Conseguentemente la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro, che si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo motivo del ricorso principale, con assorbimento dei motivi terzo e quarto; rigetta il primo motivo di ricorso principale ed i tre motivi di ricorso incidentale; cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’Appello di Catanzaro, anche per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2018.