Titolo

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Causa persa per colpa

Privacy-GDPR Procedura Civile

Licenziato per giusta causa il lavoratore – sindacalista che gratuitamente denigra l’azienda su Facebook (Cass. Sez. Lav., 35922/23)

IL FATTO

Un lavoratore – sindacalista veniva licenziato per giusta causa allorchè aveva pubblicato nella sua bacheca Facebook, in maniera visibile dalla generalità degli utenti, alcuni commenti gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonchè dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili e di persone notoriamente legate alla azienda medesima. Secondo i giudici di primo e secondo grado, tali affermazioni risultarono essere “intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore, superando, per l’effetto, ampiamente i limiti anche della più colorita manifestazione della critica finendo per costituire evidente contumelia, ingiuria e diffamazione.

IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE

“Sull’esercizio del diritto di critica, si è riconosciuto, in linea generale, come al lavoratore sia garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro (…) ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poichè il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale” (così Cass. n. 19350 del 2003 in motivazione).”

Con particolare riferimento alla posizione del lavoratore – sindacalista gli Ermellini, con indirizzo costante, hanno confermato che, ove all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti siano attribuite qualità apertamente disonorevoli con riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore possa essere legittimamente sanzionato in via disciplinare.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza del 22/12/2023, n. 35922

(Dott. DORONZO Adriana – Presidente – Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere)

(Omissis)

ORDINANZA

sul ricorso 18530-2020 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO VACIRCA, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO TEDESCHI;

– ricorrente –

contro

(Omissis) Srl IN LIQUIDAZIONE, (già (Omissis) Srl ) in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CHIANA 48, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO PILEGGI, rappresentata e difesa dall’avvocato NICOLA ROBERTO TOSCANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 535/2020 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 21/04/2020 R.G.N. 380/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/11/2023 dalla Consigliera PONTERIO CARLA.

Svolgimento del processo

che:

1. La Corte d’appello di Bari ha respinto il reclamo proposto da A.A., confermando la sentenza di primo grado che, al pari dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato al predetto il 15.5.2015 dalla (Omissis) Srl .

2. La Corte territoriale ha premesso che con lettera del 16.4.2015 è stata mossa al dipendente la seguente contestazione disciplinare: “A seguito di recenti segnalazioni è risultato che ella abbia pubblicato nella sua bacheca Facebook, in maniera visibile dalla generalità degli utenti, alcuni commenti gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonchè dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili e di persone notoriamente legate alla azienda medesima. Ci riferiamo in particolare, alle pubblicazioni di seguito testualmente riportate: ((Omissis)) “Si informano tutti i gentili colleghi dell’azienda Futura che, qualora si voglia aderire e iscriversi alla Filt Cgil perchè trattati come stracci, siatene convinti e non che alle prime minacce o false promesse vi tirate indietro, qui nessuno ha tempo da perdere, se li avete gli attributi metteteli fuori, in caso contrario allacciate bene la cintura”; ((Omissis)) “1. (Omissis).

(Omissis).

2. (Omissis).

3. (Omissis). Le affermazioni…destituite di fondamento e del tutto gratuite, superano ampiamente i limiti anche della più colorita manifestazione della critica e costituiscono evidente contumelia, ingiuria, diffamazione, rappresentando l’idea di un clima torbido, all’interno dell’azienda di cui fa parte, nonchè di altra ad essa collegata, di presunta avversione al sindacato al quale è iscritto, caratterizzato addirittura da minacce, pressioni, intrighi e violenze. Gli strali delle sue arbitrarie accuse, intrise di accenti particolarmente volgari, colpiscono anche una persona definita “(Omissis)” ed in un altro post “(Omissis)”, inducendo l’agevole suggestione che si riferisca al sig. B.B., fondatore delle aziende del gruppo, padre dell’amministratore della “B.B. e Figli”, presso cui lavora. In altro post pubblicato il (Omissis)… allega una lista di aree di sosta per le quali l’azienda avrebbe fatto assoluto divieto agli autisti di utilizzarle, in quanto ad elevato rischio di rapina a seguito di approfondite valutazioni empiriche e statistiche…”.

3. Con lettera del (Omissis) è stato intimato il licenziamento sul rilievo che i fatti contestati e ritenuti addebitabili al dipendente, a titolo di dolo o di negligenza grave e ingiustificabile, travalicassero ogni limite di critica e di satira e impedissero la prosecuzione del rapporto di lavoro.

4. La sentenza d’appello ha escluso la violazione dell’art. 7 St. Lav. avendo accertato, anche con l’ausilio di una c.t.u., che la richiesta di audizione formulata dal lavoratore e inviata, a mezzo posta elettronica, dall’indirizzo e-mail dell’ing. C.C., segretaria della Filt Cgil (Omissis), non risultava recapitata; ha ritenuto che fosse onere del lavoratore provare la conoscenza da parte datoriale della richiesta di audizione, trattandosi di atto recettizio; che tale onere non era stato assolto; che non era emersa alcuna responsabilità della società per problemi nella ricezione della e-mail; che la conoscenza da parte datoriale dell’istanza di audizione non poteva neppure desumersi dalla fruizione del permesso sindacale, richiesto dal lavoratore con la stessa e-mail, trattandosi di elemento presuntivo generico ed equivoco (lo stesso A.A., nel corso dell’interrogatorio formale, aveva detto di non ricordare se la e-mail contenesse anche la richiesta di permesso sindacale nè se egli ne usufruì effettivamente).

5. In merito alla questione del carattere “chiuso” oppure “aperto” del profilo Facebook all’epoca dei fatti, i giudici del reclamo hanno fondato la decisione sulla dichiarazioni rese dal medesimo lavoratore (nel corso dell’interrogatorio formale all’udienza dell’11.2.2016 e poi all’udienza del 14.4.2016, dopo il conferimento dell’incarico al c.t.u.) ed hanno inteso tali dichiarazioni come ammissive, non solo della paternità dei “post” pubblicati, ma anche della diffusività di quei post, cioè dell’essere gli stessi, per il carattere “aperto” del profilo Facebook, visibili da un numero indeterminato di persone, vale a dire dalla generalità degli utenti di Facebook. I giudici hanno, inoltre, valorizzato la produzione documentale della società, relativa a screen shot dalla stessa liberamente tratti dal profilo Facebook del lavoratore in epoca successiva ai fatti di causa, e comprensiva anche di una PEC inviata il 12.2.2016 dal difensore della società al difensore dell’ex dipendente al fine di far constatare come, solo dopo l’interrogatorio formale nel giudizio di primo grado, l’attuale ricorrente avesse modificato l’impostazione della propria pagina Facebook, da modalità “aperta” in modalità “chiusa”; hanno rilevato come, a fronte di tale produzione, non vi era stata alcuna presa di posizione nè contestazione da parte del lavoratore che, anzi, nella successiva udienza dell’11.4.2016 (rectius, 14.4.2016), aveva dichiarato di non contestare le circostanze di cui al punto n. 2 del quesito sottoposto al c.t.u., del seguente tenore: “se le frasi oggetto di addebito disciplinare e la lista delle aree di sosta vietate…sono state effettivamente postate dalla parte ricorrente sulla sua bacheca Facebook e quale capacità di diffusione dei predetti messaggi hanno avuto le modalità utilizzate dalla parte ricorrente ovverosia se tali modalità hanno avuto potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone”. Appurata la generale visibilità e diffusività dei messaggi “postati” su Facebook, la Corte di merito ha confermato il carattere diffamatorio della condotta addebitata al lavoratore, il travalicamento dei limiti di continenza verbale e l’insussistenza dei presupposti della scriminante dell’esercizio del diritto di critica nell’ambito delle relazioni sindacali.

6. Avverso tale sentenza A.A. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La (Omissis) Srl in liquidazione (già (Omissis) Srl ) ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1.

7. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1, come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.

Motivi della decisione

che:

8. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2729, 2697 e 1335 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7, per erronea sussunzione della fattispecie concreta, quale emerge dalle risultanze istruttorie, nelle norme invocate. Il ricorrente sostiene, riportando stralci della relazione peritale svolta in primo grado, che il c.t.u. non ha accertato il mancato recapito della e-mail a tutti e tre gli indirizzi di posta elettronica indicati dalla Filt Cgil quali destinatari della richiesta di audizione, ma ha riferito di non aver potuto svolgere gli accertamenti a causa degli sbarramenti opposti dai fornitori dei servizi (Telecom e Fastweb), in base alle disposizioni date dal Garante della privacy. Invoca, avendo denunciato il carattere ritorsivo e discriminatorio del licenziamento comminatogli quale rappresentante sindacale aziendale (Rsa) della Filt Cgil, il criterio di agevolazione probatoria che, nel caso di specie, e sulla base dell’accertato invio della e-mail da parte della segretaria della Filt Cgil, avrebbe dovuto portare a ritenere integrata la prova del rituale recapito dell’istanza di audizione. Richiama la giurisprudenza di legittimità che attribuisce alla lettera raccomandata e al telegramma il valore di prova certa della spedizione, da cui consegue la presunzione (iuris tantum) di arrivo dell’atto al destinatario. Critica la sentenza impugnata per non aver considerato elemento indiziario grave, preciso e concordante, il godimento di un permesso sindacale richiesto con la stessa e-mail contenente l’istanza di audizione e per non avere ammesso la prova testimoniale sul punto.

9. Con il secondo motivo è dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio come diretta conseguenza della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c., per avere la Corte di merito negato rilevanza alla richiesta di permesso sindacale (poi effettivamente fruito), elemento idoneo a dimostrare la ricezione della e-mail da parte datoriale, e per avere, invece, attribuito valore di piena prova a mere congetture (come la possibilità che la richiesta di permesso sindacale fosse stata formulata con modalità diverse), in violazione dell’art. 115 c.p.c., e senza ammettere le prove specificamente articolate sul punto, idonee a dimostrare circostanze tali da validare l’efficacia delle altre prove documentali.

10. I primi due motivi di ricorso, da trattare insieme perchè in parte sovrapponibili, sono infondati.

11. Sul tema della richiesta di audizione, occorre considerare che il sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della comunicazione da parte del destinatario.

12. Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria” (Cass. n. 15345 del 2023, in motivazione pag. 78, S 3.5).

13. Non possono invocarsi, in relazione alla trasmissione tramite e mail, i principi enunciati a proposito della spedizione di una raccomandata o di un telegramma (secondo cui “La produzione in giudizio di un telegramma, o di una lettera raccomandata, anche in mancanza dell’avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione, attestata dall’ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione dell’arrivo dell’atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi dell’art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della suddetta spedizione e sull’ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico”, Cass. n. 511 del 2019), in ragione della non equiparabilità dei sistemi di gestione dei rispettivi servizi (servizio di posta elettronica e servizio postale). Neppure è pertinente il richiamo alle pronunce sulle comunicazioni inoltrate a mezzo telefax (secondo cui “Una volta dimostrato l’avvenuto corretto inoltro del documento a mezzo telefax al numero corrispondente a quello del destinatario, deve presumersene il conseguente ricevimento e la piena conoscenza da parte di costui, restando, pertanto, a suo carico l’onere di dedurre e dimostrare eventuali elementi idonei a confutare l’avvenuta ricezione”, v. Cass. n. 14251 del 2019; n. 18679 del 2017; n. 349 del 2013), dato il diverso modo di operare di quest’ultimo meccanismo, che consente al mittente di verificare la avvenuta trasmissione con successo al numero di fax corrispondente a quello del destinatario (in tal senso, Cass. n. 349 del 2013 cit.).

14. Difetta quindi la prova, nel caso di specie, della ricezione da parte della società della richiesta di audizione inviata tramite e-mail, risultando insufficiente la avvenuta dimostrazione dell’invio della richiesta medesima; dal che discende l’insussistenza del vizio di violazione dell’art. 7 St. lav. e dell’art. 1335 c.c..

15. Sull’invocato criterio di agevolazione probatoria, effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, occorre precisare come esso incida sulla operatività del regime probatorio ordinario ed esattamente sulla distribuzione tra le parti degli oneri di prova aventi ad oggetto gli elementi costitutivi della fattispecie di volta in volta esaminata. A proposito del licenziamento discriminatorio si è affermato che, incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, (v. Cass. n. 23338 del 2018; n. 25543 del 2018; n. 1 del 2020; n. 5476 del 2021).

16. Non è, invece, pertinente il richiamo al principio di attenuazione dell’onere probatorio ove riferito, come nel motivo di ricorso in esame, allo specifico segmento della comunicazione della richiesta di audizione, che si vorrebbe dimostrata in deroga alle disposizioni normative in materia, trattandosi di elemento che non interferisce con l’assetto degli oneri probatori della fattispecie di licenziamento che si assume discriminatorio.

17. Le residue censure, di violazione dell’art. 2729 c.c., sono inammissibili in quanto pretendono di contestare la valutazione degli indizi e il ragionamento logico deduttivo come eseguiti dalla Corte di merito, opponendo una diversa lettura degli stessi elementi, senza evidenziare errori logico-giuridici ma sul presupposto del valore dirimente da assegnare al godimento del permesso sindacale ai fini della prova della ricezione della e-mail (contenente la richiesta di audizione) da parte della società.

18. La denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (v. Cass. n. 9054 del 2022; n. 18611 del 2021; n. 1234 del 2019; n. 29781 del 2017).

19. Nel caso in esame, la Corte di merito (sentenza, pag. 17) ha spiegato che “dall’eventuale accertamento della effettiva fruizione del permesso sindacale da parte del lavoratore giammai potrebbe trarsi implicitamente la prova che la società abbia ricevuto quella mail perchè non può escludersi che, se davvero effettiva, la fruizione del permesso sindacale sia avvenuta a seguito e per effetto della presentazione della relativa istanza secondo modalità diverse dall’inoltro della mail (…) come una domanda cartacea o altre modalità…come in passato accaduto stando alla documentazione esibita al riguardo dalla società resistente”. La Corte ha poi considerato dirimente la circostanza per cui lo stesso lavoratore, in sede di interrogatorio formale, aveva riferito di non ricordare nè se diede incarico al segretario del sindacato di chiedere per suo conto la fruizione del permesso sindacale per la giornata di 7 aprile, nè se effettivamente fruì di tale permesso. La correttezza logico giuridica delle argomentazioni svolte dai giudici di merito non è inficiata dalle censure articolate sul punto dal ricorrente e assorbe anche la critica sulla mancata ammissione delle relative prove testimoniali.

20. Non vi è spazio per configurare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 poichè (pur prescindendo dalla preclusione derivante dalla esistenza della cd. doppia conforme) la Corte d’appello ha preso in esame il fatto della fruizione del permesso sindacale e neppure residuano elementi per ritenere integrata la violazione dell’art. 115 c.p.c., atteso che la Corte di merito non ha fondato il ragionamento logico deduttivo su “mere congetture” ma ha motivatamente negato rilevanza, con efficacia dirimente, al dato fattuale indiziario della richiesta di permesso sindacale che si assume contenuta nella medesima e-mail concernente la richiesta di audizione.

21. Con il terzo motivo è denunciato l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, come diretta conseguenza di una violazione delle regole poste dagli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione alla qualità di datore di lavoro del soggetto offeso. Si censura la sentenza d’appello per avere omesso l’esame del fatto decisivo concernente l’estraneità del sig. B.B. (individuato dalla Corte come destinatario di alcune delle offese contenute nei post pubblicati su Facebook) alla compagine sociale.

22. Il motivo è inammissibile in quanto, pur in assenza di un esplicito riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, è formulato in termini di omesso esame di fatti decisivi ed investe direttamente l’accertamento in fatto eseguito dai giudici di appello sulla riferibilità di alcune delle frasi pubblicate su Facebook al fondatore della società. Non solo il fatto è stato ampiamente sviscerato dai giudici del reclamo, ma ricorre, anche qui, la preclusione data dall’art. 348 ter c.p.c. per l’ipotesi di cd. doppia conforme. Neppure vi è spazio per configurare la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. che, come chiarito da questa Corte (cfr. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), presuppone il mancato rispetto delle regole di formazione della prova ed è rinvenibile nelle ipotesi in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale; elementi non riscontrabili e neanche dedotti nella fattispecie per cui è causa.

23. Con il quarto motivo si addebita alla sentenza la violazione e falsa applicazione della L. n. 108 del 1990, art. 3, della L. n. 604 del 1966, art. 4, della L. n. 300 del 1970, artt. 15, 25 e 26 e dell’art. 2119 c.c., per erronea sussunzione della fattispecie concreta, quale emerge dalle risultanze istruttorie, nelle norme invocate. Si critica la sentenza per non avere ritenuto integrata l’ipotesi di licenziamento discriminatorio per ragioni di appartenenza sindacale, avendo la società ostacolato l’attività delle Rsa a fronte della richiesta di intervento avanzata dall’attuale ricorrente all’Ispettorato del lavoro il 10.10.2013 (v. documenti trascritti a pag. 24 e ss. del ricorso), e per aver escluso la scriminante del diritto di critica, sebbene dai post pubblicati non emergesse alcuna lesione della reputazione della società ma solo una dura dialettica sindacale, in tal modo cadendo in una falsa applicazione della nozione legale di giusta causa.

24. Neppure questo motivo può trovare accoglimento.

25. Esso è inammissibile nella parte in cui formula le censure di violazione di legge sulla base di dati fattuali non esaminati nella sentenza impugnata (come la richiesta di intervento dell’Ispettorato del Lavoro) oppure prospettando una differente valutazione degli elementi oggetto di analisi. Come più volte precisato, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma, quindi al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v. Cass. n. 3340 del 2019; n. 640 del 2019; n. 10320 del 2018; n. 24155 del 2017; n. 195 del 2016).

26. Per il resto, il motivo è infondato.

27. Sull’esercizio del diritto di critica, si è riconosciuto, in linea generale, come al lavoratore sia garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro (…) ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poichè il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale” (così Cass. n. 19350 del 2003 in motivazione).

28. Con particolare riferimento alla posizione del lavoratore – sindacalista questa Corte, con indirizzo costante, ha affermato che, sebbene garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., il diritto di critica “incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.) di tutela della persona umana, (con la conseguenza) che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore possa essere legittimamente sanzionato in via disciplinare” (così Cass. n. 19350 del 2003; Cass. n. 7471 del 2012; n. 18176 del 2018).

29. Tali limiti al diritto di critica del lavoratore, che sia anche rappresentante sindacale, sono stati ribaditi pur rilevando come il predetto agisca sotto una duplice veste, in quanto “quale lavoratore, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, (mentre) in relazione all’attività di sindacalista si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacchè detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest’ultimo” (così Cass. n. 7471 del 2012; n. 18176 del 2018).

30. La Corte di merito si è attenuta ai principi di diritto appena richiamati e, con accertamento in fatto non suscettibile di revisione in questa sede (v. Cass. n. 1379 del 2019), ha escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, “intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore. Tale accertamento esclude ogni profilo di discriminatorietà della decisione di recesso.

31. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto.

32. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

33. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Nicola Roberto Toscano, antistatario.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 8 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2023

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