La colpa grave di uno dei conducenti esonera l’altro dall’onere di vincere la presunzione di pari responsabilità solo se non poteva evitare lo scontro
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
“L’accertamento in concreto di una condotta di guida gravemente colposa da parte di uno dei conducenti coinvolti in un sinistro stradale solleva l’altro conducente dall’onere di vincere la presunzione di pari responsabilità, di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., unicamente nel caso in cui la colpa concreta del primo sia stata tale da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra evitativa da parte dell’altro conducente. È pertanto falsamente applicato l’art. 2054, comma secondo, c.c., se il giudice attribuisca l’intera responsabilità ad uno solo dei conducenti, nonostante non possa stabilire in concreto se l’altro conducente abbia avuto la possibilità almeno teorica di evitare la collisione.”
In buona sostanza,
pur accertata la colpa grave di uno dei due conducenti coinvolti nel sinistro, l’altro non può ritenersi liberato dalla presunzione di pari colpa di cui al secondo comma dell’ art. 2054 c.c.
Concludendo,
l’accertamento della condotta colposa di uno dei conducenti coinvolti è idoneo a superare la presunzione di cui all’art. 2054 II comma c.c. solo nel caso in cui quella condotta avrebbe comunque provocato il sinistro, quale che fosse stata la condotta dell’antagonista.
L’ORDINANZA
Cassazione civile, Sez. III, Ordinanza del 20/11/2024, n. 29927
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Illustrissimi Signori Magistrati
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente
Dott. SCODITTI Enrico – Pres. Sez.
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere
Dott. SIMONE Roberto – Consigliere
Dott. ROSSETTI Marco – Relatore
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso n. 22559/23 proposto da
-) A.A., e B.B., domiciliati ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore, difeso dall’avvocato Giuseppe Gioia;
– ricorrenti –
contro
-) Generali Italia Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore, difeso dall’avvocato Stefania Coletti;
– controricorrente –
nonché
-) C.C.;
– intimata –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta 27 giugno 2023 n. 250;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10 settembre 2024 dal Consigliere relatore dott. Marco Rossetti;
Svolgimento del processo
1. Il 29.10.2002 D.D. perse la vita in conseguenza d’un sinistro stradale.
La moglie (A.A.,) ed il figlio (B.B.) della vittima in data non indicata nel ricorso convennero dinanzi al Tribunale di Enna E.E. ed il di lui assicuratore della r.c.a., FATA Assicurazioni Spa (che in seguito muterà ragione sociale in Generali Italia Spa, e come tale sarà comunque d’ora innanzi indicata), allegandone la responsabilità esclusiva e chiedendone la condanna al risarcimento del danno.
2. Nelle more del giudizio E.E. verrà a mancare, e la domanda contro di lui proposta verrà coltivata nei confronti dell’erede C.C.
3. Con sentenza 2.4.2015 n. 172 il Tribunale di Enna accolse in parte la domanda, attribuendo alla vittima un concorso di colpa paritario, ex art. 2054, secondo comma, c.c.
La sentenza fu appellata dagli attori, i quali censurarono sia l’attribuzione alla vittima d’un concorso di colpa, sia la stima del danno.
4. Con sentenza 27.6.2023 n. 250 la Corte d’Appello di Caltanissetta accolse in parte il gravame, così provvedendo
-) stabilì che la vittima non contribuì alla causazione del sinistro;
-) incrementò la stima del danno non patrimoniale;
-) incrementò la stima del danno patrimoniale da lucro cessante;
-) contenne la condanna dell’assicuratore nei limiti del massimale, escludendo esservi prova d’un suo “atteggiamento ostruzionistico e dilatorio”;
-) incrementò la liquidazione delle spese, che compensò tuttavia per un terzo.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per Cassazione da A.A., e B.B. con ricorso fondato su tre motivi articolati in più censure.
La Generali Italia ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale, cui i ricorrenti principali hanno resistito con controricorso.
C.C. non si è difesa.
Ambo le parti costituite hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Va preliminarmente rigettata, perché superflua, l’istanza di rimessione in termini formulata dai ricorrenti principali, motivata dall’intento di sanare una ipotetica tardività del deposito del ricorso.
Dal sistema informatico in dotazione alla Corte risulta infatti che il ricorso fu depositato il 20 novembre 2023, e dunque tempestivamente.
2. Il primo motivo contiene più censure.
Con una prima censura (pp. 8-9) i ricorrenti denunciano l’erroneità della liquidazione del lucro cessante futuro, da essi sofferto in conseguenza della morte del rispettivo marito e padre.
Deducono che a base del calcolo la Corte territoriale avrebbe dovuto porre, quale reddito perduto che il defunto destinava a pro dei familiari, non già l’importo di Euro 3.539 mensili, ma una somma maggiore, per tenere conto delle verosimili progressioni stipendiali che la vittima avrebbe conseguito, se fosse rimasta in vita.
2.1. La censura è inammissibile e comunque infondata.
È inammissibile, perché la quantificazione del danno patrimoniale è un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito; è comunque infondata perché la Corte d’Appello nella stima del lucro cessante futuro ha espressamente dichiarato di voler tenere conto “dei prevedibili incrementi stipendiali di cui (la vittima) avrebbe goduto per effetto della progressione di carriera” (p. 18, penultimo capoverso, della sentenza impugnata; il concetto è ribadito a p. 15, penultimo capoverso).
Il criterio applicato fu dunque giuridicamente corretto; lo stabilire poi se la stima del danno sia stata coerente con le risultanze probatorie è questione non sindacabile in sede di legittimità.
3. Con una seconda censura i ricorrenti denunciano che erroneamente la Corte d’Appello ha posto a base del calcolo il reddito della vittima al netto del carico fiscale.
L’illustrazione della censura è così riassumibile
-) la Corte d’Appello, dopo aver liquidato il danno emergente consistito nella perdita dei redditi che il defunto avrebbe erogato ai familiari, l’ha ridotto del 30% per tenere conto del carico fiscale e dei contributi previdenziali;
-) questa scelta sarebbe stata corretta solo per il danno futuro (ovvero i redditi non ancora maturati al momento della liquidazione, ma che sarebbero stati perduti negli anni a venire), ma non per il danno passato (che i ricorrenti chiamano “danno emergente”), poiché “dal prospetto riepilogativo degli importi retributivi per tutti i singoli mesi, è dato scorgere che non viene prevista alcuna voce contributiva e fiscale e, come l’importo della retribuzione di ogni singolo mese, sia già al netto di tali voci”.
3.1. La censura è infondata.
Premesso che la liquidazione del danno di cui si discorre è ampiamente equitativa (dal momento che non è mai possibile stabilire con esattezza certosina quanta parte del reddito da lavoro una persona destina ai bisogni della famiglia), e che la liquidazione equitativa non è sindacabile in sede di legittimità salve le ipotesi estreme di manifesta irrazionalità, rileva il Collegio che la Corte d’Appello ha liquidato il danno da lucro cessante assumendo quale base di calcolo la “retribuzione annua lorda” della vittima (p. 16, ultimo e quartultimo capoverso). Da tale importo ha quindi detratto il carico fiscale e i contributi previdenziali, equitativamente determinati nella misura del 30%.
La Corte dunque non ravvisa la doppia decurtazione denunciata dai ricorrenti (detrarre il carico fiscale da un reddito già considerato al netto delle imposte). Lo stabilire poi se le cifre poste dalla Corte a base del calcolo corrispondessero a quelle risultanti dagli atti è, anche in questo caso, questione di valutazione delle prove, non sindacabile in questa sede.
4. Con una terza censura i ricorrenti denunciano l’erroneità della liquidazione del danno da lucro cessante futuro.
Sostengono che la relativa liquidazione fu erronea perché la Corte d’Appello pose a base del calcolo il reddito che ipoteticamente la vittima, se fosse rimasta in vita, avrebbe percepito nell’anno 2014, “senza procedere all’aggiornamento dello stesso sino al 2023 (anno della liquidazione giudiziale) che come calcolato, per analogia al capo I.A”.
Avrebbe invece dovuto, secondo i ricorrenti, porre a base della liquidazione il maggior reddito di Euro 56.407.
4.1. Il motivo è inammissibile per inintelligibilità della censura.
I ricorrenti infatti non spiegano in che modo ed in base a quali criteri pervengono a determinare la suddetta cifra di Euro 56.407.
Il motivo è altresì inammissibile perché investe una liquidazione – quella del danno futuro – schiettamente equitativa, come tale non sindacabile in questa sede se non nei casi di manifesta irragionevolezza.
5. Anche il secondo motivo di ricorso si articola in due censure.
Va esaminata per prima la seconda censura (pp. 16-18 del ricorso), ai sensi dell’art. 276, secondo comma, c.p.c.
6. Con la suddetta censura i ricorrenti prospettano il vizio di “omesso esame del fatto”.
Al di là di tale intitolazione, in realtà non pertinente, nella illustrazione del motivo sostengono che la Corte d’Appello avrebbe “dato per scontato” che la misura del massimale fosse di Euro 774.685,35, senza che tale circostanza fosse mai stata dimostrata dalla Generali Italia. Ed in assenza di tale prova – proseguono i ricorrenti, trascrivendo ad litteram la memoria di replica depositata in primo grado – l’assicuratore si sarebbe dovuto condannare al risarcimento integrale, perché era suo onere dimostrare che il contratto prevedeva un massimale, e di che importo.
6.1. Il motivo è inammissibile.
Se si assegna rilievo alla sua intitolazione formale (“omesso esame del fatto”), esso è inammissibile ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., oggi trasfuso nell’art. 360, quarto comma, c.p.c.
Se si assegna rilievo al “fondo” della censura, esso è inammissibile perché investe il modo in cui il giudice di merito ha interpretato il certificato assicurativo, e dunque una prova documentale.
Se, infine, lo si interpreta come denuncia della violazione delle norme sul riparto dell’onere della prova, esso è infondato perché sono gli stessi ricorrenti a dedurre che in atti fu versato un documento (il certificato assicurativo) indicante la misura del massimale. E la valutazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto (implicitamente) quel documento attendibile e rilevante è questione di fatto, insindacabile in questa sede.
6.2. Con la prima censura del secondo motivo (illustrata alle pp. 12-16) i ricorrenti denunciano formalmente la “nullità della sentenza per mancanza di motivazione”.
Deducono che la Corte d’Appello non ha motivato il rigetto della domanda di condanna dell’assicuratore in misura eccedente il massimale, e che comunque la sentenza ha finito per escludere del tutto gli effetti della mora debendi dell’assicuratore.
Osservano in contrario che l’assicuratore doveva essere condannato al risarcimento del danno anche oltre il limite del massimale, perché la sua mora doveva ritenersi colposa, consistita nell’avere tenuto una condotta “dilatoria ed ostruzionistica”, in particolare
-) attendendo sei anni prima di versare un primo, modesto acconto;
-) opponendosi alla richiesta di provvisionale avanzata dagli odierni ricorrenti dinanzi al giudice penale, ove si erano costituiti parti civili;
-) risarcendo i genitori ed i germani della vittima (che, singolarmente, la difesa dei ricorrenti definisce “lontani parenti”), mentre avrebbe dovuto liquidare – secondo i ricorrenti – dapprima il danno da essi sofferto.
6.3. Va premesso che, ad onta della sua intitolazione, il motivo in realtà denuncia la violazione l’art. 1224 c.c. (p. 13, penultimo rigo), per avere la sentenza d’appello escluso gli effetti della mora nonostante l’assicuratore avesse atteso sei anni prima di indennizzare, e per di più parzialmente, i danneggiati (p. 13, terzo rigo).
Questo iato tra l’intitolazione del motivo e la sua illustrazione non osta tuttavia all’esame del “fondo” della censura, in quanto se il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), il ricorso non può per ciò solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).
6.4. Nel merito il motivo è fondato, nella parte in cui lamenta che l’obbligazione dell’assicuratore sia stata contenuta entro il tetto del massimale anche con riferimento agli interessi di mora; non è fondato nella parte in cui pretende che l’assicuratore sia condannato all’intero risarcimento anche in conto capitale, come se quel limite non esistesse.
6.5. Sotto il primo aspetto, va ricordato che l’assicuratore della r.c.a. è debitore in via diretta d’una obbligazione risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato (art. 144 cod. ass.), e come tutti i debitori risponderà in prima persona nel caso di mora a meno che non dimostri che il ritardo sia dovuto a causa a lui non imputabile, ex art. 1218 c.c. (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8676 del 2022; 17/03/2022; Sez. 3, Sentenza n. 28811 dell’8/11/2019; Sez. 3, Sentenza n. 1083 del 18/01/2011).
6.6. Rispetto a questa obbligazione l’assicuratore non può invocare il limite del massimale quel limite, infatti, vale per le obbligazioni altrui di cui l’assicuratore per contratto debba rispondere. Non vale, invece, per le obbligazioni dell’assicuratore che scaturiscono dal fatto proprio, invece che dal fatto dell’assicurato.
L’inadempimento della obbligazione risarcitoria nei confronti del danneggiato nei termini stabiliti dalla legge (art. 148 cod. ass.) è fatto proprio dell’assicuratore, non dell’assicurato. Se dunque l’assicuratore per fatto proprio viene meno all’obbligo di adempiere la propria obbligazione nel termine di legge, andrà incontro agli effetti della mora, come qualsiasi altro debitore.
6.7. La decisione impugnata non ha rispettato questi princìpi per avere escluso la mora dell’assicuratore sul presupposto che questi avesse “effettuato, già nel corso del processo di primo grado e, poi, in esecuzione della sentenza di prime cure, il pagamento di tre consistenti acconti in favore dei soggetti danneggiati, senza contare che, in origine, la medesima compagnia aveva stipulato con i genitori, con la sorella e con il fratello della vittima un accordo transattivo, in esecuzione del quale è stata corrisposta agli stessi la somma complessiva di Euro 130.000”.
Questa affermazione vìola le norme sopra indicate sotto due aspetti.
6.7.1. In primo luogo, la mora debendi va accertata e giudicata avendo riguardo al rapporto giuridico intercorrente tra il creditore e il debitore. Pertanto la circostanza che il debitore (l’assicuratore) avesse effettuato pagamenti in acconto a favore di altri danneggiati dal medesimo sinistro era irrilevante per stabilire quali dovessero essere gli effetti della mora rispetto al creditore rimasto insoddisfatto.
6.7.2. In secondo luogo la mora debendi non richiede affatto, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, un “atteggiamento ostruzionistico, dilatorio ed ingiustificatamente resistente”.
La mora del debitore ha per presupposto il solo fatto oggettivo dell’inadempimento, né è onere del creditore dimostrare l’ “ostruzionismo” del debitore. È, invece, onere di quest’ultimo dimostrare che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c., applicabile pacificamente anche alle obbligazioni nascenti dalla legge, quale è quella dell’assicuratore della r.c.a. o dell’impresa designata nei confronti della persona danneggiata).
6.7.3. In terzo luogo, ma è quel che più rileva, la Corte d’Appello ha escluso gli effetti della mora debendi dell’assicuratore sul presupposto che l’assicuratore della r.c.a. aveva versato tre acconti ai danneggiati (p. 23 della sentenza).
Tuttavia la stessa sentenza aveva poco prima rilevato in punto di fatto (p. 21) che il primo dei suddetti acconti fu versato “nel corso del 2005”; il secondo fu versato il 22.10.2008, il terzo fu versato il 20.03.2009.
La sentenza impugnata ha quindi escluso in iure la mora del debitore dopo avere accertato in facto che i tre pagamenti furono eseguiti a distanza di tre, sei e sette anni dal sinistro.
Così giudicando la Corte d’Appello ha effettivamente violato le norme che disciplinano la mora dell’assicuratore della r.c.a.
Questi infatti deve adempiere la propria obbligazione nel termine stabilito dalla legge, che nel caso di morte o lesioni personali causate da persona assicurata da una impresa assicuratrice in bonis è di 90 giorni decorrenti da quello in cui la vittima ha richiesto per iscritto il risarcimento (art. 148 cod. ass.).
Il fatto stesso che la legge conceda 90 giorni all’assicuratore per determinarsi in ordine al risarcimento da corrispondere al danneggiato “è sintomatico della tipizzazione del tempo considerato necessario perché siano compiuti gli accertamenti del caso” (Sez. 3, Sentenza n. 1083 del 18/01/2011).
Ciò vuol dire che il legislatore, con valutazione ex ante, ha ritenuto che tre mesi sono di norma sufficienti a chi esercita una impresa di assicurazioni per accertare le responsabilità, stimare il danno e risarcire la vittima.
Se quel termine viene superato, diventa onere dell’assicuratore vincere la presunzione di colpa posta a suo carico dall’art. 1218 c.c.
La presunzione di cui all’art. 1218 c.c. può essere vinta dal debitore dimostrando la causa non imputabile, e cioè – secondo la costante interpretazione di tale norma adottata da questa Corte – l’assenza di colpa (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 12477 del 26/08/2002, Rv. 557067 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11717 del 05/08/2002, Rv. 556670 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 7604 del 19/08/1996, Rv. 499224 – 01, e via risalendo sino a Sez. 3, Sentenza n. 860 del 04/05/1962, Rv. 251375 – 01).
L’assenza di colpa va giudicata col criterio di cui all’art. 1176 c.c. e cioè valutando se il debitore abbia o non abbia tenuto una condotta conforme a quella che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanze, un debitore di media diligenza.
L’assicuratore della r.c.a. non è un debitore qualsiasi è un debitore qualificato dalla veste professionale. Egli dunque deve adempiere le proprie obbligazioni non già con la diligenza esigibile da qualunque persona di media avvedutezza, ma con la exacta diligentia esigibile da chiunque eserciti professionalmente un’attività economica, ai sensi dell’art. 1176, comma secondo, c.c.. L’art. 1176, comma secondo c.c., impone pertanto di considerare “negligente” l’assicuratore della r.c.a. che
a) ignori o trascuri di rispettare le norme di legge in base alle quali accertare la responsabilità del proprio assicurato;
b) ignori o trascuri di rispettare le norme giuridiche in base alle quali individuare i danneggiati;
c) ignori o trascuri di rispettare le norme giuridiche in base alle quali accertare e stimare il danno causato dal proprio assicurato (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 4668 del 14/02/2022, Rv. 664075 – 01, con ampia motivazione).
Nel caso di specie, dunque, l’error iuris in cui è incorsa la Corte d’Appello è consistito nell’avere accertato un inadempimento oggettivo dell’assicuratore; nel non avere accertato alcuna causa “non imputabile” che giustificasse questo inadempimento; e nell’avere cionondimeno escluso gli effetti della mora.
6.8. Stabilito che la sentenza impugnata va cassata con rinvio nella parte in cui ha escluso gli effetti della mora, il motivo va invece rigettato nella parte in cui vi si sostiene che l’assicuratore si sarebbe dovuto condannare al risarcimento integrale, senza limiti.
Infatti se il debito dell’assicuratore eccede in conto capitale il danno causato dall’assicurato, e l’assicuratore ritardi colposamente il pagamento, la condanna ultramassimale potrà riguardare solo gli interessi moratori (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8676 del 17/03/2022; Sez. 3 – , Sentenza n. 28811 del 08/11/2019, alle cui motivazioni si può qui rinviare ex art. 110 disp. att. c.p.c.).
Il danno causato dall’assicurato deriva infatti dalla condotta di quest’ultimo, non dal fatto dell’assicuratore, e rispetto ad esso il limite del massimale resta insuperabile.
Completezza impone di aggiungere come sia priva di fondamento la deduzione dei ricorrenti, secondo cui l’assicuratore avrebbe avuto l’onere di risarcire per primi la vedova e l’orfano della vittima. Costoro infatti non vantano alcun diritto di essere preferiti rispetto agli altri danneggiati; né i ricorrenti hanno sollevato questioni, nei gradi di merito, circa la ripartizione proporzionale del massimale fra tutti i danneggiati.
6.9. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, la quale applicherà i seguenti princìpi di diritto
(a) l’assicuratore della r.c.a. è in mora ex re una volta spirato il termine per formulare la proposta di risarcimento, di cui all’art. 148 cod. ass., a meno che non provi che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile, ex art. 1218 c.c.
(b) L’assicuratore della r.c.a. in mora nel pagamento del risarcimento al terzo danneggiato, quando il danno in conto capitale ecceda il massimale, è tenuto al pagamento in eccesso rispetto al massimale dei soli interessi moratori, ma non del capitale.
7. Il terzo motivo del ricorso principale investe la statuizione di compensazione delle spese nella misura di un terzo e resta assorbito dall’accoglimento del secondo motivo.
8. Il ricorso incidentale.
Il primo motivo del ricorso incidentale censura la ricostruzione della dinamica del sinistro ed è manifestamente inammissibile perché concerne un tipico accertamento di fatto, come tale insindacabile in questa sede.
8.1. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione dell’art. 2054, comma secondo, c.c. (in particolare a p. 24 del controricorso), ed è fondato.
Per escludere la responsabilità della vittima, la Corte nissena ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui per superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma secondo, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”.
8.2. Il principio per cui l’accertamento della condotta dell’un conducente può bastare a superare la presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054, secondo comma, c.c., anche quando non sia esattamente nota la condotta del conducente antagonista è stato tuttavia falsamente applicato dalla sentenza impugnata.
Quel principio non va affatto inteso nel senso che, accertata la colpa grave di uno dei due conducenti coinvolti nel sinistro, l’altro possa ritenersi per ciò solo liberato dalla presunzione di pari colpa di cui al secondo comma dell’art. 2054 c.c.
Quel principio va inteso nel senso che l’accertamento della condotta colposa di uno dei conducenti coinvolti è idoneo a superare la suddetta presunzione in un solo caso quando quella condotta avrebbe comunque provocato il sinistro, quale che fosse stata la condotta dell’antagonista (ad es., l’invasione improvvisa dell’opposta corsia, da parte di un veicolo di larghezza pari alla corsia percorsa dall’antagonista).
8.3. Nel caso di specie la Corte d’Appello ha accertato in fatto che l’autoveicolo condotto dal convenuto E.E., dovendo effettuare una svolta alla propria destra per immettersi in un viottolo di limitata larghezza, dapprima si allargò alla propria sinistra, quindi eseguì la manovra di svolta. Durante l’esecuzione di questa manovra venne urtato dal motociclo condotto dal dante causa degli odierni ricorrenti, che proveniva a tergo lungo la stessa direzione di marcia dell’autoveicolo.
La Corte d’Appello ha tuttavia dichiarato di non potere stabilire la velocità tenuta dal motociclista nei momenti immediatamente precedenti il sinistro, né di potere stabilire quale fosse la distanza tra il motociclo ed il veicolo antagonista, nel momento in cui quest’ultimo iniziò la manovra di svolta (così la sentenza d’appello, p. 11, ultimo e penultimo capoverso).
Tuttavia una velocità moderata e una adeguata distanza di sicurezza del motociclista avrebbero potuto teoricamente evitare l’impatto. Se esiste questa teorica possibilità, deve escludersi l’applicazione della massima di esperienza per cui l’accertamento della colpa dio uno dei due conducenti coinvolti basti a superare la presunzione di corresponsabilità.
La sentenza impugnata va dunque cassata anche su questo punto, in applicazione del seguente principio di diritto
“L’accertamento in concreto d’una condotta di guida gravemente colposa da parte di uno dei conducenti coinvolti in un sinistro stradale solleva l’altro dall’onere di vincere la presunzione di pari responsabilità, di cui all’art. 2054, comma secondo, c.c., solo in un caso quando la colpa concreta dell’uno sia stata tale, da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro. È pertanto falsamente applicato l’art. 2054, comma secondo, c.c., se il giudice attribuisca l’intera responsabilità ad uno solo dei conducenti, nonostante non possa stabilire in concreto se l’altro conducente abbia avuto la possibilità almeno teorica di evitare la collisione”.
9. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
(-) accoglie il secondo motivo del ricorso principale nei limiti di cui in motivazione e rigetta le restanti censure;
(-) accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale e rigetta le restanti censure;
(-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma il 10 settembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2024.