Immobili adibiti ad uso abitazione – Diniego di rinnovo alla prima scadenza – Manifestazione della relativa volontà per uno dei motivi indicati nell’art. 3, comma 1, della legge n. 431 del 1998 – Presunzione di serietà di tale dichiarazione – Sussistenza – Fondamento.
LA VICENDA
Un locatore intimava al locatario licenza per finita locazione in relazione ad un immobile di sua proprietà concesso in locazione esponendo a fondamento della domanda che la durata era stata pattuita in anni quattro decorrenti dal 1 febbraio 2011 e che, con lettera del 13 maggio 2014, aveva inviato disdetta, essendo sua intenzione adibire l’immobile ad abitazione al proprio figlio avvalendosi, per l’effetto, dell’esercizio del diniego motivato ex art. 3 L. 431/98.
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
In tema di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo, il meccanismo sanzionatorio predisposto dall’art. 3 della legge n. 431 del 1998 con riferimento al diniego di rinnovo alla prima scadenza è da considerarsi tale, sia per la sua automaticità sia per la sua gravità (avuto riguardo alle conseguenze pregiudizievoli che subisce il locatore in caso di inadempimento, come previste dal comma terzo dello stesso art. 3 della citata legge), da lasciar presumere che il locatore, il quale deduca una delle intenzioni ritenute dalla suddetta legge (come contemplate nel primo comma del medesimo articolo 3) meritevoli di considerazione, non invochi maliziosamente e superficialmente la particolare intenzione addotta a sostegno del formulato diniego, a meno che non emergano concreti elementi che inducano il giudice a ritenere l’intenzione dedotta irrealizzabile. (Rigetta, CORTE D’APPELLO VENEZIA, 29/05/2018) (Riferimenti normativi: Legge 27/07/1978 num. 392 – art. 30 CORTE COST.)
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Cassazione civile, Sez. III, Ordinanza del 28/03/2022, n. 9851
Presidente: FRASCA – Estensore: IANNELLO
LA SENTENZA
(omissis)
Svolgimento del processo
1. Con atto notificato il 22 settembre 2014 T.V. intimò a B.G. e M.M. licenza per finita locazione per la data del 31 gennaio 2015, in relazione ad immobile di sua proprietà concesso in locazione ai predetti con contratto del 23 dicembre 2010.
Espose a fondamento che la durata era stata pattuita in anni quattro decorrenti dal 1 febbraio 2011 e che, con lettera del 13 maggio 2014, aveva inviato disdetta, essendo sua intenzione adibire l’immobile ad abitazione del figlio S..
Gli intimati si opposero alla convalida eccependo:
– il difetto di legittimazione attiva dell’intimante in quanto il contratto di locazione risultava sottoscritto da S.G. e perchè il T. non risultava proprietario dell’immobile locato;
– che le intenzioni manifestate nella disdetta erano prive di fondamento in quanto T.S. era già proprietario di un immobile abitativo nello stesso comune.
2. Previo mutamento del rito, con sentenza del 27 ottobre 2015 il Tribunale di Venezia dichiarò la nullità del contratto e condannò i convenuti a rilasciare il bene ed a corrispondere al T. l’importo mensile di Euro 580,00, oltre a metà delle spese di lite, compensate per l’altra metà.
A tale decisione pervenne (secondo quanto ne è riferito nella sentenza d’appello) sul rilievo che: il contratto era stato redatto come se fosse stato stipulato dal T. (indicato come “locatore”), mentre era stato sottoscritto dalla moglie S.G.; nell’atto non vi era alcun elemento che permettesse di riconoscere l’esistenza di una procura o anche solo l’intento del sottoscrittore di voler firmare in rappresentanza dell’apparente contraente; poichè per la stipulazione di un contratto di locazione era necessaria la forma scritta ad substantiam anche la procura doveva aver la stessa forma; stante l’insanabile contrasto fra il soggetto indicato come parte del contratto ed il soggetto sottoscrittore, unitamente alla mancanza di procura, veniva radicalmente a mancare l’accordo, con conseguente nullità del contratto; sotto tale profilo andava accolta la domanda di rilascio ed i convenuti andavano condannati anche al pagamento di un’indennità per occupazione senza titolo, da determinarsi nell’importo pattuito come canone.
3. Proposero contrapposti gravami tutte le parti, la M. e il B. deducendo vizio di ultrapetizione, difetto di legittimazione attiva in capo al T., erroneità nell’an e nel quantum della riconosciuta indennità di occupazione; il T., con appello incidentale, deducendo all’opposto la piena validità ed efficacia del contratto di locazione e della disdetta.
4. In accoglimento dell’appello incidentale, e rigettati quelli contrapposti del B. e della M., la Corte d’appello di Venezia, con la sentenza in epigrafe, accertata la validità del contratto di locazione e della successiva disdetta, ha dichiarato cessato il rapporto locativo alla data di scadenza del primo quadriennio, confermando la condanna dei resistenti al rilascio dell’immobile locato.
Ha, infatti, rilevato che dal tenore complessivo del contratto si desumeva che locatore era esclusivamente il T., come tale ivi indicato, e che pertanto la sottoscrizione della S. non aveva altro senso se non quello di agire in nome e per conto del T..
Tale interpretazione, inoltre, risultava avvalorata dal fatto che il canone veniva versato al T. (e non alla S.) e dalla dichiarazione del teste Z. (resa in altro giudizio ma nondimeno utilizzabile), agente immobiliare che aveva partecipato alle trattative ed era presente alla firma, che aveva riferito che la S. aveva dichiarato di aver sottoscritto il contratto quale delegata del marito.
Ha soggiunto che, peraltro, l’eventuale mancanza di procura non avrebbe comunque provocato la nullità del contratto atteso che la mancanza di poteri rappresentativi avrebbe potuto essere eccepita solo dal soggetto falsamente rappresentato. Nel caso in esame, al contrario, l’eventuale mancanza di procura avrebbe dovuto considerarsi sanata, ai sensi dell’art. 1399 c.c., dalla ratifica ravvisabile sia nella disdetta dell’8 maggio 2014, sia nell’atto introduttivo del presente procedimento.
Ha rilevato che, ai fini della validità del contratto di locazione, non era necessario che il locatore fosse anche proprietario del bene concesso in locazione, e che comunque la documentazione dimessa, anche se parzialmente contestata, dimostrava che il T. era effettivamente il proprietario del bene locato.
Ha infine ritenuto valida ed efficace la disdetta, per essere a tal fine sufficiente la manifestata intenzione di destinare l’immobile ad uso abitativo del figlio T.S. ai sensi della L. n. 431 del 1998, art. 3, comma 1, senza necessità di fornirne la prova (“fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di cui del citato art. 3, comma 3, nell’eventualità in cui il locatore non abbia adibito l’immobile all’uso dichiarato nell’atto di diniego del rinnovo nel termine di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità”).
Ha al riguardo precisato che non valeva ad escludere la serietà dell’intenzione manifestata nella disdetta la circostanza che T.S. fosse proprietario di un immobile nello stesso comune, atteso che all’epoca della disdetta detto immobile non era disponibile perchè concesso in locazione a terzi ad uso abitativo.
5. Per la cassazione di tale sentenza B.G. propone ricorso affidato a tre motivi.
Gli intimati non svolgono difese.
La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. c.p.c..
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, “erroneità, nullità e/o carenza e/o vizio di motivazione della sentenza… laddove è stata riconosciuta la legittimazione attiva in capo al sig. T. in quanto non proprietario dell’immobile de quo e non parte del contratto di locazione in contesa; violazione e falsa applicazione degli artt. 75 e 182 c.p.c.”.
Deduce l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha ritenuto legittimamente esercitata l’azione proposta dal T. in assenza di alcuna procura speciale derivante dalla proprietaria dell’immobile, in palese violazione del disposto di cui all’art. 75 c.p.c..
Rileva al riguardo che S.G. non ha mai fatto ingresso in giudizio a sanare e/o ratificare l’operato del sig. T.; nè, tanto meno, sono mai stati compiute le verifiche di cui all’art. 182 c.p.c..
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, errata interpretazione ed applicazione della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 3.
La regola di giudizio applicata dalla Corte di merito sarebbe, secondo il ricorrente, erronea nella parte in cui non richiede al giudice di merito un vaglio della sussistenza in concreto del motivo addotto, in relazione anche ad altri fattori esterni, quali le condizioni del conduttore, effettuando un equo contemperamento degli interessi delle parti (validità sostanziale della disdetta).
Sostiene che, a tal fine, nel caso di specie, il giudice d’appello avrebbe dovuto tener conto: a) del fatto che il figlio dei coniugi T. – S. era proprietario di immobile sito nello stesso comune che, però, al momento della disdetta appariva singolarmente e stranamente condotto in locazione da soggetto terzo; b) del fatto che esso odierno ricorrente era gravemente malato e, dunque, portatore di un interesse ben più attuale e concreto di quello manifestato dal locatore, che invece rappresentava un mero pretesto per riottenere il possesso dell’immobile.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia “erroneità ed illogicità della condanna alla rifusione a favore del sig. T. dell’indennità di occupazione sine titulo”.
Deduce che “corollario dei precedenti motivi di ricorso è la necessità di cassazione della condanna stabilita dalla Corte lagunare alla rifusione del danno da asserita occupazione senza titolo…, in quanto evidentemente ed erroneamente riconosciuta a favore di:
– un soggetto totalmente privo di legittimazione attiva ad azionare un contratto del quale lo stesso non era nemmeno parte;
– un soggetto che non era nemmeno proprietario dell’immobile oggetto di causa…
– un soggetto che ha artatamente e maliziosamente fatto ricorso alle prerogative di cui alla L. n. 431 del 1998, art. 3, per sloggiare una persona malata e sofferente”.
Rileva inoltre che “la sussistenza dei suddetti motivi avrebbe dovuto, quanto meno, indurre la Corte d’Appello a compensare le spese di lite, in virtù della peculiarità delle questioni e del comportamento processuale del sig. T.”.
4. Il primo motivo è inammissibile.
Esso ignora totalmente la motivazione a pag. 11-13 della sentenza, che nemmeno evoca, e pertanto non si fa carico di essa.
Si tratta, dunque, di motivo inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un motivo di impugnazione.
Devesi al riguardo richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.
In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
4.1. E’ appena il caso di evidenziare che, nella specie, all’opposto di quanto postulato a fondamento del motivo in esame (e ripetuto anche nella illustrazione del terzo), la corte d’appello ha affermato la validità del contratto di locazione non perchè l’iniziativa del T. era stata ratificata dalla moglie S.G., sul presupposto che tale ratifica fosse necessaria per non essere il T. nè parte del contratto nè proprietario dell’immobile, ma tutto all’opposto ha affermato che – giova ripetere – il contratto di locazione era valido perchè: a) il T. era parte del contratto quale vero ed effettivo locatore; b) la sottoscrizione della moglie poteva considerarsi apposta nella veste di procuratrice del marito e comunque il suo operato doveva considerarsi da quest’ultimo ratificato; c) non era necessario che il T. fosse anche proprietario dell’immobile e, in ogni caso, lo era.
5. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
5.1. Secondo consolidata interpretazione il diniego di rinnovo di cui alla L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 3, lett. a), al pari dell’analogo istituto previsto dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 27, presuppone l’intenzione (ma non anche la necessità) del locatore di disporre dell’immobile per uno degli usi previsti dalla norma; l’intenzione deve essere seria, cioè realizzabile giuridicamente e tecnicamente, ma non è sindacabile nel suo contenuto di merito, non potendo il giudice interferire sull’utilità o sulla convenienza della divisata destinazione per il locatore (Cass. 21/01/2010, n. 977; v. anche Cass. 18/05/2010, n. 12127 secondo cui “in tema di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo, il meccanismo sanzionatorio predisposto dalla L. n. 431 del 1998, art. 3, con riferimento al diniego di rinnovo alla prima scadenza è da considerarsi tale, sia per la sua automaticità sia per la sua gravità (avuto riguardo alle conseguenze pregiudizievoli che subisce il locatore in caso di inadempimento, come previste dello stesso art. 3, comma 3 della citata Legge), da lasciar presumere che il locatore, il quale deduca una delle intenzioni ritenute dalla suddetta legge (come contemplate del medesimo art. 3, comma 1) meritevoli di considerazione, non invochi maliziosamente e superficialmente la particolare intenzione addotta a sostegno del formulato diniego, a meno che non emergano concreti elementi che inducano il giudice a ritenere l’intenzione dedotta irrealizzabile”).
Per legittimare il mancato rinnovo del rapporto da parte del locatore, è quindi sufficiente la semplice manifestazione di volontà di destinare l’immobile ad abitazione o a luogo di lavoro, propri o di un proprio familiare, senza ulteriori formalità, fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di cui del citato art. 3, comma 3, nell’eventualità in cui il locatore non abbia adibito l’immobile all’uso dichiarato nell’atto di diniego del rinnovo nel termine di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità (Cass. 10/12/2009, n. 25808).
5.2. Le considerazioni svolte a fondamento del ricorso, circa il potere/dovere del giudice di operare un equo contemperamento degli interessi delle parti (validità sostanziale della disdetta) non hanno, dunque, giuridico fondamento.
E’ appena il caso di soggiungere che, peraltro, le stesse sono basate su dati fattuali, quelli almeno che riguardano le condizioni di salute del conduttore, che non emergono dalla sentenza impugnata e non hanno dunque costituito oggetto di accertamento di fatto del quale, nella pur qui negata ipotesi di una loro rilevanza, possa eventualmente tenersi conto ai fini della somministrazione della corretta regola di giudizio applicabile.
6. Il terzo motivo è inammissibile, con riferimento ad entrambe le censure che al suo interno sono svolte.
6.1. La prima investe, infatti, una statuizione – quella della condanna al pagamento di somme a titolo di indennizzo per occupazione sine titulo – che non si rinviene nella sentenza d’appello, la quale si è limitata a confermare il capo 2 della sentenza di primo grado (contenente la condanna al rilascio dell’immobile).
Mette conto sul punto rilevare che, per vero, la corte d’appello avrebbe dovuto occuparsi della statuizione di condanna al pagamento dell’indennità di occupazione per dichiararne la caducazione quale effetto espansivo interno, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., della riforma della sentenza di primo grado; avrebbe poi dovuto anche valutare, alla luce di essa, se fosse possibile qualificare la relativa domanda di controparte come riferita ai canoni dovuti in forza del riconosciuto valido contratto di locazione.
Non avendo fatto ciò, la corte di merito è, verosimilmente, incorsa in una omissione di pronuncia, di cui si doveva però lamentare la controparte.
Ne discende che la censura svolta all’opposto dal ricorrente non solo impugna, come detto, una statuizione inesistente, ma ignora l’effetto dell’art. 336 c.p.c., comma 1.
6.2. La seconda suppone un potere di sindacato (sulla mancata compensazione delle spese) che questa Corte non ha.
E’ pacifico indirizzo, infatti, quello secondo il quale esula dal sindacato di legittimità e rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione della opportunità della compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, essendo la statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, posto dall’art. 91 c.p.c., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa – ipotesi nella specie non ricorrente – o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con motivazione illogica o erronea (Cass. n. 3272 del 07/03/2001 e successive numerose conformi).
E’ stato anche precisato che “in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione” (Cass. Sez. U. 15/07/2005, n. 14989).
7. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
8. Non avendo gli intimati svolto difese, non v’è luogo a provvedere sul regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
9. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 febbraio 2022.
Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2022