La Cassazione chiarisce il bilanciamento tra diritto alla cronaca e diritto all’oblio, evidenziando le responsabilità degli editori nel trattamento dei dati personali
La sentenza n. 31859/2024 della Corte di Cassazione rigetta il ricorso di un soggetto che aveva presentato ricorso al Tribunale di Roma per ottenere la deindicizzazione di alcuni articoli online che trattavano una vicenda penale del 2013 in cui era stato coinvolto. Gli articoli, pubblicati da diverse testate giornalistiche, erano rimasti indicizzati sui motori di ricerca senza aggiornamenti successivi alla sua assoluzione avvenuta nel 2021. Il Tribunale accoglieva parzialmente la richiesta, ordinando la deindicizzazione di un articolo specifico, ma respingeva le altre domande, incluse quelle di risarcimento danni, condannando il ricorrente al pagamento delle spese legali.
La Corte ribadisce il bilanciamento tra il diritto di cronaca e il diritto alla privacy, stabilendo che la deindicizzazione è possibile solo dopo una sentenza assolutoria definitiva.
Viene sottolineato che il diritto alla deindicizzazione non implica automaticamente la cancellazione delle notizie, ma richiede il rispetto dei principi di necessità, proporzionalità e minimizzazione dei dati personali. Inoltre, la Riforma Cartabia ha introdotto ulteriori meccanismi procedurali per facilitare la deindicizzazione a seguito di una sentenza di proscioglimento o assoluzione definitiva.
La Corte ha chiarito che le richieste di deindicizzazione devono essere avanzate al momento opportuno, e non in una fase precedente alla definizione giudiziaria della vicenda, mantenendo così un equilibrio tra la tutela della privacy e l’interesse pubblico all’informazione storica.
L’ORDINANZA
Cassazione civ., Sez. III, Ordinanza del 11/12/2024, n. 31859
(Omissis)
Svolgimento del processo
Per quanto qui interessa, con ricorso depositato il 14 luglio 2021 ex articolo 152 D.Lgs. 196/2003 A.A. adiva il Tribunale di Roma perché fosse dichiarato illegittimo il trattamento dei suoi dati personali effettuato da Editrice Libero Srl, IL SOLE 24 ORE Spa, Dagospia Spa, Il Nuovo Manifesto soc. coop., Euclidea Esa Spa, LEDI Spa ed Editoriale Il Fatto Spa (d’ora in poi SEIF) con pubblicazione, permanente visibilità e indicizzazione sui motori di ricerca di determinati articoli su una vicenda penale del 2013 nella quale egli era stato coinvolto. Chiedeva perciò di rimuovere o in subordine di impedire l’indicizzazione degli articoli in associazione al suo nome; in ulteriore subordine, chiedeva di renderlo anonimo; chiedeva pure, previa pronuncia di illegittimità della condotta dei convenuti, la condanna di questi a risarcirgli danno non patrimoniale ai sensi degli articoli 82 Reg. UE 679/2016, 2043 e 2059 c.c.
Durante il giudizio, per rinuncia attorea nei confronti di Editrice Libero e Dagospia che l’accettavano, nei confronti di questi si estingueva il processo.
Con sentenza del 20 luglio 2022 il Tribunale ordinava a Il Nuovo Manifesto la deindicizzazione di un articolo emesso il 13 luglio 2013 e rigettava comunque la relativa domanda risarcitoria e ogni domanda proposta nei confronti delle altre parti, condannando il ricorrente a rifondere integralmente le spese di lite a SEIF e a IL SOLE 24 ORE – costituitesi in congiunta difesa – nonché a LEDI. A.A. ha presentato ricorso, articolato in otto motivi e illustrato anche con memoria, da cui si difendono con un unico controricorso SEIF e IL SOLE 24 ORE.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 5 e 17 Reg. UE 679/2016 laddove il giudice afferma che solo dalla pubblicazione della sentenza di assoluzione dello A.A. pronunciata nella vicenda penale il 9 giugno 2021 – dalla Corte d’Appello di Roma al seguito di rinvio dalla Cassazione penale – l’attuale ricorrente avrebbe potuto chiedere intervento sugli articoli in questione, mentre egli ha avviato il giudizio con ricorso depositato il 14 luglio 2021 (v. in effetti a pagina 5 della sentenza qui impugnata).
1.1 Osserva il ricorrente che tutti gli articoli pubblicati da SEIF risalivano al 2013, riguardavano i “primissimi momenti” della vicenda giudiziaria e non erano stati mai aggiornati da SEIF prima del ricorso. Per la “non attualità” delle notizie ivi presenti, ferme appunto al 2013, l’11 dicembre 2019 – come sostenuto da SEIF stessa nella sua comparsa difensiva – lo A.A. aveva inviato a SEIF istanza di rimozione e/o deindicizzazione ovvero minimizzazione dei dati, ai sensi degli articoli 5, lettera c), 17 e 21 Reg. UE 679/2016, e successivamente, il 20 ottobre 2020, l’aveva invitata in mediazione per l’omesso aggiornamento e non invece per la sentenza assolutoria, all’epoca non ancora pervenuta. Ed era ben noto a SEIF che “vi fossero stati degli sviluppi”. Il citato articolo 5 prevede – sub c) e d) – la “minimizzazione” rispetto alle finalità dei dati e che i dati personali siano, “se necessari, aggiornati”; se ne evince altresì che il titolare del trattamento deve rispettare il principio di “responsabilizzazione”, per cui tali dati devono aggiornarsi “appena avuta notizia del contrario”, anche qualora la notizia provenga da “fonti aperte”. Inoltre l’articolo 8 del Testo unico sui doveri del giornalista stabilisce che l’estensore deve rispettare il diritto alla presunzione di non colpevolezza.
Lo stesso Tribunale menziona, a pagina 5 della sentenza, la giurisprudenza di legittimità riguardante l’opportuna deindicizzazione degli articoli relativi a fatti risalenti di cronaca giudiziaria (riferendosi a S.U. 19681/2019, Cass. 9923/2022 e Cass. 7559/2020) non indicante “l’esito assolutorio quale requisito unico per la de-indicizzazione”. Tuttavia il giudice, ad avviso del ricorrente, ha errato nel ritenere la soluzione quale unico requisito dal quale decorra il diritto all’oblio, senza tenere conto del “lungo arco di tempo” comunque intercorso tra il 2013 e le domande di oblio nonché il mancato aggiornamento.
1.2 Inoltre, secondo il ricorrente il Tribunale ha pure errato quanto alle norme evocate ove ha ritenuto che SEIF “ha dato prova di aver aggiornato gli articoli” con la notizia dell’assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello di Roma.
Qui il ricorrente lamenta che l’articolo, emendato “solo in corso di causa”, ha ricevuto l’aggiunta soltanto di “uno scarno e statico trafiletto di quattro righe in fondo”, non collegate ad altre informazioni sull’evoluzione della vicenda. Inoltre, il Tribunale, benché abbia dichiarato che l’obbligo di deindicizzazione è sorto soltanto con la conoscenza dell’assoluzione, da far risalire alla notifica del ricorso di primo grado, ha ordinato unicamente a Il Nuovo Manifesto la deindicizzazione dell’articolo pubblicato il 13 luglio 2013, nonostante che la sua posizione nei confronti della conoscenza dell’assoluzione “fosse assolutamente identica”.
1.3 In sostanza, lo A.A. sostiene che, trascorso un tempo tutt’altro che minimale (“lungo arco di tempo”), si sarebbero dovuti aggiornare gli articoli del 2013 riguardanti il suo arresto e l’avvio quindi della sua vicenda penale. È però generico in questa doglianza, in quanto non indica in che cosa avrebbe dovuto consistere l’aggiornamento da effettuarsi anteriormente alla sentenza assolutoria.
Né certo poteva qualificarsi “vicenda giudiziaria ormai definita” (così nel ricorso, a pagina 4) la sua vicenda prima dell’assoluzione; e fattuale è l’affermazione, ad essa affiancata, che era “ormai anacronistica” rispetto all’interesse pubblico.
Il Tribunale ha correttamente evidenziato, seguendo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, il principio di bilanciamento tra i diritti alla cronaca e all’oblio (sentenza, pagina 4) e quindi anche “la necessità di bilanciare il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare la memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati”; e ha pure rimarcato che le richieste attinenti all’articolo 5, lettera c), 17 e 21 Reg. UE 679/2016 e la richiesta di mediazione erano proponibili non quando furono presentate, cioè quando “risultava ancora pendente il giudizio in Cassazione”, ma solo dopo l’assoluzione (sentenza, pagina 5).
Quanto poi all’articolo del Nuovo Manifesto (sentenza, pagina 6), il Tribunale fa ben intendere che veicolava un contenuto non identico, integrando così una valutazione fattuale; come parimenti deve ritenersi valutazione fattuale stabilire quando si sarebbero dovuti modificare i dati prima dell’assoluzione.
Tramite tutti questi profili, dunque, il motivo perviene alla inammissibilità.
2. Il secondo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’articolo 91 c.p.c.
2.1 Per quanto esposto nel primo motivo, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare cessata la materia del contendere, ritenendo l’aggiornamento di SEIF soddisfacente rispetto alle domande dello A.A., e compensare le spese; altrimenti avrebbe dovuto spiegare la differenza della decisione rispetto a quella verso Il Nuovo Manifesto.
2.2 Il contenuto di questo motivo coincide evidentemente, nella sua natura fattuale, con quello del precedente, di cui pertanto condivide l’inammissibilità.
3. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 115, 116, 132, secondo comma, n. 4 c.p.c.
3.1 Quanto alla domanda proposta nei confronti del Sole 24 Ore, il Tribunale ritiene infondata l’allegazione dell’attuale ricorrente che gli articoli fossero “indicizzati in associazione alle generalità del ricorrente”, perché i documenti prodotti a dimostrarlo “oltre ad essere datati 30 giugno 2021 (quattro mesi prima della notifica del ricorso introduttivo) riportano una schermata Google dalla quale potrebbe al più desumersi che il motore di ricerca – e non la testata giornalistica – non abbia adempiuto alla richiesta di deindicizzazione”.
Si obietta che “non è mai stata allegata… alcuna istanza di deindicizzazione indirizzata al motore di ricerca essendo, pertanto, la deduzione del Giudice fondata su di un atto processualmente… inesistente”.
3.2 A sostegno di questa doglianza il ricorrente tenta di richiamare la fattispecie del travisamento della prova. Invece, ictu oculi, si è dinanzi ad una valutazione del Tribunale direttamente fattuale. D’altronde non si individua neppure un interesse alla base della censura, perché il ricorrente stesso dichiara che non vi è stata alcuna istanza in relazione al motore di ricerca (ricorso, pagina 15). Il motivo risulta pertanto inammissibile.
4. Il quarto motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, nn. 4 e 5 c.p.c., omesso esame di fatto discusso e decisivo.
4.1 Si riporta il passo della sentenza in cui viene affermato che LEDI – la quale aveva stipulato un contratto di locazione temporanea (10 dicembre 2020-31 luglio 2021) avente ad oggetto un ramo d’azienda di Edisud, “con la previsione del mero utilizzo dell’archivio telematico”, senza aver potere di modificarlo – era stata “laconicamente” citata in giudizio senza alcuna allegazione di “un eventuale trasferimento tra le parti del diritto controverso”, così rigettando la domanda.
Si oppone di avere, “invece, ben documentato essere LEDI il gerente della testata” quando fu proposto il ricorso: e questo sarebbe stato un fatto discusso e decisivo che il Tribunale avrebbe omesso di valutare.
4.2 Il motivo è inammissibile se non altro perché non indica come l’attuale ricorrente avrebbe appunto “documentato”, al riguardo fornendo solo un generico asserto.
5. Il quinto motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’articolo 115 c.p.c.
5.1 Si aggiunge al precedente motivo l’asserto che LEDI “non ha mai negato la propria gerenza pro tempore della testata” e non ha “contestato i relativi screenshot” prodotti dallo A.A. Verrebbe pertanto violato l’articolo 115 c.p.c.
5.2 Anche questo motivo è inammissibile perché generico e assertivo: si riferisce invero soltanto ad “All.ti 9.1 e 9.2” senza indicare il loro contenuto sul punto.
D’altronde, la ratio decidendi del Tribunale è un’altra (si veda già il precedente motivo), attinente alla prova della gerenza della testata, cioè, in effetti, all’accertamento fattuale che LEDI aveva stipulato un contratto locatizio che non le consentiva di modificare l’archivio, ma soltanto di fruirne.
6. Il sesto motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’articolo 111 c.p.c.
6.1 Il Tribunale afferma che l’attuale ricorrente non ha allegato nulla su “un eventuale trasferimento tra le parti del diritto controverso”. Però LEDI non ha contestato di essere il gerente della testata quando è stata proposta la domanda, e ha essa stessa lamentato che la notifica del ricorso non era più “nella disponibilità del diritto controverso”. Pertanto non sarebbe spettato allo A.A. “dover provare fenomeni successori” onde il Tribunale non avrebbe correttamente applicato l’articolo 111 c.p.c.
6.2 Il motivo palesemente non è sostenuto da interesse: ut supra già evidenziato, la ratio decidendi adottata dal giudice è quella risultata a proposito del quarto motivo.
La censura perciò è inammissibile.
7. Il settimo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 5 e 17 Reg. UE 679/2016.
7.1 Si riporta ancora il passo della sentenza richiamato nel quarto motivo – per cui la locazione temporanea di un ramo d’azienda a LEDI non le aveva attribuito la possibilità di modificare l’archivio telematico -, affermandolo errato perché almeno la domanda di deindicizzazione non avrebbe comportato la modifica dell’archivio telematico.
7.2 Il nerbo del motivo costituisce un’asserita affermazione fattuale, e quindi apporta inammissibilità.
Ad abundantiam si rileva, allora, che, essendo l’archivio di proprietà di un altro soggetto, LEDI non avrebbe comunque potuto incidere sulla fruizione del suo contenuto in difetto di una specifica clausola contrattuale che glielo consentisse, qui non invocata.
8. L’ottavo motivo denuncia, ex articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’articolo 91 c.p.c., del D.P.R. 115/2022, del D.M. 127/2004 e del D.L. 223/2006 convertito in L. 248/2006.
8.1 La liquidazione delle spese processuali, “corretta quanto all’individuazione dei parametri tariffari”, avrebbe incluso la fase istruttoria, che invece non si è svolta. Pertanto andrebbe ridotto il quantum delle spese dall’importo di Euro 4800 all’importo di Euro 3005,65.
8.2 Il Tribunale non fa riferimento alla fase istruttoria nel liquidare le spese, bensì ne indica in modo generale l’importo: il motivo quindi non ha riscontro nel contenuto della sentenza, ed è frutto di un calcolo forzato operato dal ricorrente. Ne consegue l’infondatezza.
9. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione alla controparte controricorrente delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi dell’articolo 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2012, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 3200, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’articolo 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 30 settembre 2024.
Depositato in Cancelleria l’11 dicembre 2024.