Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-03-2017, n. 7309
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
Il professionista, nella prestazione dell’attività professionale, sia questa configurabile come adempimento di un’obbligazione di risultato o di mezzi, è obbligato, a norma dell’art. 1176 c.c., ad usare la diligenza del buon padre di famiglia; la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale (del quale il professionista è chiamato a rispondere anche per la colpa lieve, salvo che nel caso in cui, a norma dell’art. 2236 c.c. la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà) e, in applicazione del principio di cui all’art. 1460 c.c., la perdita del diritto al compenso. Tuttavia, l’eccezione d’inadempimento, ai sensi appunto dell’art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all’avvocato che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale purchè la negligenza sia stata tale da incidere sugli interessi del cliente, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, ed essendo contrario a buona fede l’esercizio del potere di autotutela ove non sia pregiudicata la “chance” di vittoria in giudizio. Sicchè, ai fini del riscontro della proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, essenziale per la fondatezza dell’exceptio non rite adimpleti contractus, legittimamente il cliente rifiuta di corrispondere il compenso all’avvocato quando costui abbia espletato il proprio mandato incorrendo in omissioni dell’attività difensiva che, sia pur sulla base di criteri necessariamente probabilistici, risultino tali da aver impedito di conseguire un esito della lite altrimenti ottenibile (in tal senso, Cass. n. 11304 del 2012; Cass. n. 6967 del 2006; Cass. n. 5928 del 2002).
LA SENTENZA
(Omissis)
Svolgimento del processo
1 . L’avvocato Q.S. chiedeva, e otteneva, decreto ingiuntivo per il pagamento, da parte di M.G., della somma di Euro 43.442,10, quale saldo degli onorari e dei diritti dovutigli per l’attività professionale svolta in favore del M. in una causa di risarcimento danni, conclusasi con la condanna del Condominio di (OMISSIS), al pagamento, in favore del M., della somma di Euro 9.598,15, a fronte della richiesta di danni per circa ventisei miliardi di lire. In quel giudizio la richiesta di danni era relativa agli effetti, sulla galleria d’arte dell’opponente e sulle opere d’arte in essa custodite, della rottura di un tubo di scarico di natura condominiale; domanda non accolta, se non in minima parte, non essendo risultato provato il nesso di causalità tra allagamento e danni riportati dalle opere d’arte presenti in galleria al momento del sinistro.
Avverso il decreto ingiuntivo il M. proponeva opposizione, contestando il valore della causa in base al quale era stata elaborata la parcella posta a fondamento del decreto ingiuntivo, e spiegando domanda riconvenzionale volta all’accertamento della responsabilità professionale del Q., con conseguente perdita del diritto di quest’ultimo al compenso e condanna dello stesso alla restituzione di quanto versato (Euro 16.000,00, oltre diciannove opere d’arte di valore complessivo pari a 22.000.000 di lire).
2 . Il Tribunale di Roma rigettava l’opposizione e la domanda riconvenzionale.
Per quanto in questa sede ancora rileva, il Tribunale riteneva che l’inadempimento del professionista non potesse essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, dovendo invece essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale, secondo il parametro della diligenza professionale di cui all’art. 1176 c.c., comma 2. Osservava, quindi, che, nella specie, non si verteva in tema di perdita del diritto al compenso dell’avvocato che avesse agito nell’inosservanza della chiesta diligenza, quanto piuttosto del mancato accoglimento di una domanda di danni e quindi del raggiungimento stesso del risultato cui l’attività professionale era diretta e, sostanzialmente, della scelta difensiva adottata nel giudizio presupposto. Il Tribunale riteneva quindi che le colpe addebitate dall’opponente al difensore – consistenti nella mancata articolazione di prova testimoniale sulla circostanza che i quadri fossero presenti nella galleria al momento dell’allagamento e nella mancata richiesta di una c.t.u. – non fossero ravvisabili nella specie. Quanto alla prova testimoniale, il Tribunale rilevava che l’articolazione probatoria era destinata a passare al vaglio di ammissibilità e rilevanza da parte del giudice, mentre la valutazione in termini di congruità e attendibilità della prova espletata era poi rimessa al giudice del procedimento risarcitorio, che avrebbe dovuto valutare anche la eventuale prova articolata dall’altra parte. Riteneva, quindi, che non vi fossero elementi per pervenire al ribaltamento della decisione di primo grado per effetto di un quadro probatorio arricchito dalle deposizioni testimoniali. Quanto alla c.t.u., il Tribunale rilevava che la stessa atteneva ad un momento successivo a quello della formazione della prova, sicchè la mancanza della stessa, da sola, non poteva apportare alcun utile contributo in ordine alla esistenza di negligenze del difensore e al conseguente mancato raggiungimento del risultato auspicato.
3 . Avverso questa decisione il M. proponeva appello.
Nella resistenza dell’appellato, la Corte d’appello di Roma, con sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. il 13 giugno 2013, rigettava il gravame.
La Corte riteneva innanzi tutto errato il criterio seguito dal Tribunale, che si era discostato dalla regola per cui il giudice chiamato a decidere della responsabilità professionale dell’avvocato, il quale sia incorso in colpa per omissione, è tenuto ad effettuare un giudizio prognostico, necessariamente probabilistico, circa l’esito che la lite avrebbe avuto se la condotta omessa fosse stata invece posta in essere. Riteneva, quindi, che lo strumento da utilizzare, versandosi in ipotesi di causalità omissiva, fosse quello del giudizio controfattuale, ipotizzando come eseguita la condotta omessa, e della conseguente valutazione in termini di prognosi postuma. In applicazione di tale criterio, la Corte d’appello rilevava che l’appellante non aveva neanche spiegato quale avrebbe dovuto essere, esattamente, il contenuto della prova testimoniale diretta a dimostrare i danni subiti dalle opere d’arte custodite in numero superiore a 2.000 nella sua galleria; e che non aveva offerto elementi tali da dimostrare che la prova testimoniale volta alla dimostrazione dei danni alle opere d’arte avrebbe avuto successo, e quale; in sostanza non aveva offerto elementi idonei a comprovare, pure approssimativamente, quali e quante opere d’arte fossero rimaste custodite nell’immobile e quante, in conseguenza dell’allagamento, fossero rimaste danneggiate. In conclusione, la Corte riteneva che non era stato provato che, in assenza del preteso inadempimento del professionista, l’esito della lite sarebbe stato diverso nè era stato esattamente individuato il pregiudizio che l’appellato avrebbe cagionato.
La Corte rilevava, poi, che il rigetto del primo motivo comportava anche il rigetto del secondo, con il quale l’appellante mirava a dimostrare che il riconoscimento della responsabilità del Q. avrebbe dovuto determinare l’accoglimento della domanda riconvenzionale. Riteneva ancora infondato il terzo motivo, nella parte in cui era volto a sostenere che il Tribunale avesse omesso di pronunciare sulla domanda subordinata volta a far dichiarare il valore satisfattivo dei pagamenti già effettuati: il rigetto delle censure relative al valore della controversia e l’accertamento della proporzionalità del compenso richiesto all’opera prestata valevano, infatti, come reiezione della domanda subordinata. Ad avviso della Corte d’appello il terzo motivo era poi inammissibile per difetto di specificità, nella parte in cui si richiamavano le ragioni già esposte nell’atto di opposizione.
La Corte rigettava, infine, il quarto motivo, rilevando che lo stesso era formulato sulla premessa, rivelatasi infondata, che il Tribunale avrebbe dovuto accogliere l’opposizione.
3 – Avverso la decisione della Corte d’appello M.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.
L’intimato ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1 – Con il primo motivo – rubricato “violazione degli artt. 352, 190 e 281-sexies c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Error in procedendo, nullità della sentenza e del procedimento. Conseguente violazione dei diritti di difesa” – il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte d’appello proceduto nelle forme dell’art. 281-sexies c.p.c., pur essendo devoluta la controversia al giudice di appello in composizione collegiale. La struttura della decisione ai sensi della citata disposizione, infatti, sarebbe compatibile esclusivamente con la decisione riservata al giudice monocratico, e quindi con la decisione che il Tribunale può adottare in caso di appello avverso sentenze del giudice di pace, ma non anche con la decisione rimessa alla Corte d’appello, che sarebbe disciplinata esclusivamente dall’art. 352 c.p.c..
1.1. – Il motivo è infondato.
Invero, ancor prima che il legislatore prevedesse espressamente la applicabilità della forma di decisione di cui all’art. 281-sexies al giudizio di appello (L. n. 183 del 2011, in vigore dal 31 gennaio 2012), questa Corte aveva affermato che “nel giudizio di gravame dinanzi alla corte d’appello non è applicabile l’art. 281-sexies c.p.c., che disciplina la decisione a seguito di trattazione orale nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, dovendosi invece fare riferimento esclusivo a quanto dettato dall’art. 352 c.p.c., comma 2. Tuttavia, qualora la corte d’appello abbia applicato l’art. 281-sexies citato, seguendo la relativa disciplina, la nullità del procedimento è sanata, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2, ove, a fronte dell’invito rivolto alle parti di discutere oralmente la causa nella stessa udienza, quest’ultime non si oppongano, nè richiedano il termine per il deposito della comparsa conclusionale e della memoria di replica, in tal modo omettendo di tenere il comportamento processuale necessario per indurre il Collegio a procedere nelle forme ordinarie, restando altresì esclusa la violazione dei principi regolatori del giusto processo, ex art. 360-bis c.p.c., comma 1, n. 2, là dove le stesse parti abbiano avuto la possibilità di svolgere appieno le proprie difese” (Cass. n. 21216 del 2011).
Nella specie, deve rilevarsi, da un lato, che la causa è stata posta in decisione dopo l’entrata in vigore della introduzione, nell’art. 352 c.p.c., del comma 6, a tenore del quale “quando non provvede ai sensi dei commi che precedono, il giudice può decidere la causa ai sensi dell’art. 281-sexies”; dall’altro, che il ricorrente non ha neanche dedotto di avere, in sede di udienza di discussione, chiesto il termine per il deposito di comparsa conclusionale.
2 – Con il secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., sostenendo che la Corte d’appello avrebbe pronunciato su di una domanda non proposta e non avrebbe invece esaminato quella effettivamente proposta. Nel mentre, infatti, la domanda spiegata con l’opposizione a decreto ingiuntivo era unicamente quella di negare il compenso reclamato dall’Avvocato Q. per l’attività professionale spiegata nel giudizio risarcitorio dinnanzi al Tribunale di Roma a causa delle negligenze professionali espressamente riconosciute sia dal Tribunale che, in sede di gravame, dalla stessa Corte d’appello, quest’ultima, assume il ricorrente, avrebbe deciso la causa di opposizione a decreto ingiuntivo come se oggetto della stessa fosse una domanda – in realtà mai proposta – di risarcimento del danno nei confronti del professionista. In particolare, il ricorrente rileva che la valutazione probabilistica effettuata dalla Corte d’appello non aveva senso, atteso che nessuna istanza risarcitoria era stata proposta nei confronti del Q., essendo la riconvenzionale finalizzata a paralizzare la richiesta di pagamento fatta dal professionista, in relazione ad un compenso non dovuto per le evidenziate negligenze. Del pari era del tutto inutile accertare quale sarebbe stato il risultato raggiunto in caso di ammissione della prova testimoniale.
In sostanza, rileva il ricorrente, nel rigettare il primo motivo di gravame la Corte d’appello ha sostanzialmente rigettato una domanda di danni in realtà non proposta. Al contrario, ciò che veniva in discussione era la richiesta di escludere il compenso richiesto dal professionista e di ottenere la restituzione del compenso già versato, sul rilievo della esistenza di negligenze nell’espletamento del mandato; negligenze che erano state accertate e che avrebbero dovuto essere ritenute sufficienti ai fini della esclusione del compenso; ciò tanto più in quanto la stessa Corte d’appello aveva apprezzato in termini di negligenza la condotta del professionista.
Ed ancora, osserva il ricorrente, le negligenti omissioni del Q. integravano non un inadempimento tout court della prestazione, ma un negligente adempimento dell’obbligazione professionale, e la Corte d’appello non solo ha pronunciato su una immaginaria domanda di danni, ma ha anche omesso di pronunciarsi e di valutare la condotta del professionista integrante il negligente adempimento lamentato. In conclusione, il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia sostanzialmente operato una inversione della qualifica delle parti, rendendo attore esso ricorrente e convenuto il Q., assolvendolo dall’immaginaria domanda di danni.
3. – Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ancora violazione dell’art. 112 c.p.c., svolgendo le medesime censure di cui al precedente motivo con riguardo alla reiezione della domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna del Q. alla restituzione delle somme percepite a titolo di compenso professionale in relazione ad un’attività professionale per la quale nessun compenso avrebbe dovuto essere corrisposto in considerazione delle accertate negligenze del professionista, che avevano condotto al mancato accoglimento della domanda risarcitoria.
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., commi 1 e 2, artt. 1218, 2697 e 1460 c.c., sostenendo che la Corte d’appello, invertendo la posizione delle parti e ritenendo che egli avesse proposto una domanda risarcitoria nei confronti del Q., ha poi omesso di pronunciare sulla eccezione di inadempimento, che era il vero oggetto delle domande proposte in sede di opposizione a decreto ingiuntivo. In particolare, la Corte d’appello non avrebbe effettuato alcuna valutazione ex art. 1176 c.c., comma 2, della colpevole condotta addebitabile al professionista (omessa richiesta di ammissione di prova testimoniale e di c.t.u. sui fatti costitutivi della domanda risarcitoria); valutazione che sarebbe stata necessaria in presenza di una domanda di pagamento dei compensi professionali e della eccezione di non debenza formulata da esso ricorrente proprio sul presupposto del negligente espletamento della prestazione. Inoltre, la Corte territoriale avrebbe violato gli artt. 1218 e 2697 cod. civ., per non avere rilevato nè che il Q. non aveva provato che l’inadempimento della sua obbligazione professionale fosse dipeso da causa a lui non imputabile, a fronte della contestazione di negligente adempimento formulata con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo; nè che esso ricorrente aveva invece documentalmente provato, attraverso la produzione delle due sentenze rese nel giudizio risarcitorio, l’inadempimento del professionista. Infine, la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 1460 cod. civ., per non avere ritenuto che esso ricorrente, in presenza di un conclamato inadempimento del professionista, aveva il diritto di non adempiere la propria prestazione corrispettiva.
5. – Con il quinto motivo di ricorso, il M. denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., dolendosi del fatto che la Corte d’appello non abbia pronunciato sulle domande ed eccezioni effettivamente proposte.
6. – Con il sesto motivo il ricorrente deduce omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, nel testo vigente sino all’11 settembre 2012), riproponendo le censure, già svolte in riferimento all’art. 360, n. 4, di omessa pronuncia in ordine alle domande ed eccezioni effettivamente proposte e di pronuncia su una domanda non proposta.
7. – Con il settimo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, sostenendo che, in conseguenza degli errori denunciati con i precedenti motivi, la Corte d’appello avrebbe altresì errato nella statuizione relativa alle spese.
8. – I motivi dal secondo al quinto, all’esame dei quali può procedersi congiuntamente in considerazione della connessione delle questioni poste, sono infondati.
L’assunto del ricorrente è che la Corte d’appello avrebbe deciso su una domanda non proposta nei confronti del professionista, e segnatamente quella di danni, atteso che oggetto della controversia era unicamente la valutazione della negligenza del difensore – secondo il ricorrente chiaramente desumibile dalle decisioni del Tribunale e della Corte d’appello intervenute nel giudizio nel quale egli era stato rappresentato dal Q. – e del suo diritto a non corrispondere alcun compenso per la detta attività professionale, e quindi anche del diritto ad ottenere la restituzione del compenso corrisposto.
In sostanza, come espressamente dedotto nel quarto motivo, la domanda proposta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo era appunto quella di non dover corrispondere alcunchè al difensore a causa dell’inadempimento di quest’ultimo nell’assolvimento del mandato professionale. Con la conseguenza che, dunque, il Tribunale prima e la Corte d’appello poi non avrebbero dovuto in alcun modo dovuto svolgere alcun accertamento in ordine alla prova del danno, onde potere escludere il diritto del professionista non solo al compenso richiesto con il decreto ingiuntivo, ma anche a quello già corrisposto.
8.1. – Tale assunto non può essere condiviso.
Come già più volte affermato da questa Corte, il professionista, nella prestazione dell’attività professionale, sia questa configurabile come adempimento di un’obbligazione di risultato o di mezzi, è obbligato, a norma dell’art. 1176 c.c., ad usare la diligenza del buon padre di famiglia; la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale (del quale il professionista è chiamato a rispondere anche per la colpa lieve, salvo che nel caso in cui, a norma dell’art. 2236 c.c. la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà) e, in applicazione del principio di cui all’art. 1460 c.c., la perdita del diritto al compenso. Tuttavia, l’eccezione d’inadempimento, ai sensi appunto dell’art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all’avvocato che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale purchè la negligenza sia stata tale da incidere sugli interessi del cliente, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, ed essendo contrario a buona fede l’esercizio del potere di autotutela ove non sia pregiudicata la “chance” di vittoria in giudizio. Sicchè, ai fini del riscontro della proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, essenziale per la fondatezza dell’exceptio non rite adimpleti contractus, legittimamente il cliente rifiuta di corrispondere il compenso all’avvocato quando costui abbia espletato il proprio mandato incorrendo in omissioni dell’attività difensiva che, sia pur sulla base di criteri necessariamente probabilistici, risultino tali da aver impedito di conseguire un esito della lite altrimenti ottenibile (in tal senso, Cass. n. 11304 del 2012; Cass. n. 6967 del 2006; Cass. n. 5928 del 2002).
Una simile verifica era dunque, nel caso di specie, tanto più necessaria in quanto il ricorrente, nel proporre opposizione a decreto ingiuntivo, aveva sollecitato non solo l’affermazione della inesistenza del diritto del professionista al compenso richiesto per effetto del suo inadempimento, ma aveva anche richiesto la condanna del medesimo alla restituzione di quanto già corrisposto per l’esecuzione della prestazione professionale. In sostanza, il ricorrente aveva sollecitato la risoluzione del contratto di prestazione professionale per inadempimento del difensore, così rendendo necessaria la verifica della condotta del professionista e la idoneità degli addebiti a lui mossi a giustificare la detta risoluzione per inadempimento.
La proposizione della domanda riconvenzionale, dunque, esigeva che i giudici di merito si interrogassero sulla configurabilità dell’inadempimento del professionista e che ciò facessero adottando i criteri di valutazione affermati dalla giurisprudenza di questa Corte per l’accertamento della sussistenza di un inadempimento colpevole da condotta omissiva. Sicchè deve escludersi senz’altro la fondatezza dei motivi con i quali il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello deciso su una domanda asseritamente non proposta. Al contrario, come già evidenziato, proprio la pretesa del ricorrente di non dover corrispondere alcunchè al professionista per una sua pretesa negligenza, imponeva alla Corte di compiere l’accertamento in concreto svolto.
Questa Corte ha, infatti, avuto modo di affermare che “la responsabilità professionale dell’avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, da commisurare alla natura dell’attività esercitata. Inoltre, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici” (Cass. n. 6967 del 2006, cit.; Cass. n. 25234 del 2010).
La Corte d’appello, dunque, nel non condividere il ragionamento del giudice di primo grado e nel procedere ad una valutazione in termini di prognosi postuma, ha affermato che l’errore nel quale era incorso il giudice di primo grado non comportava affatto che se la prova testimoniale (omissione questa lamentata dal ricorrente e ritenuta di per sè integrante una negligenza idonea ad escludere il diritto del professionista al compenso) fosse stata dedotta e ammessa, il ricorrente stesso avrebbe ottenuto l’importo che si attendeva (lire 26 miliardi) o comunque un importo sensibilmente superiore a quello riconosciuto dal Tribunale nella causa avente ad oggetto i danni arrecati dall’allagamento alla galleria d’arte. In particolare, la Corte d’appello ha poi aggiunto che l’appellante non ha neppure spiegato quale avrebbe dovuto essere, esattamente, il contenuto della prova testimoniale diretta a dimostrare i danni subiti dalle opere d’arte custodite in numero superiore a 2.000 nella galleria d’arte del M.. Nè ha offerto alla Corte elementi tali da dimostrare che la prova testimoniale volta alla dimostrazione dei danni alle opere d’arte avrebbe avuto successo, e quale; e, in altri termini, a comprovare, pure approssimativamente, quali e quante opere d’arte fossero rimaste custodite nell’immobile e quante, in conseguenza dell’allagamento, fossero rimaste danneggiate”.
Le considerazioni sin qui svolte comportano dunque la infondatezza dei motivi secondo, terzo, quarto e quinto.
9. – Il sesto motivo è inammissibile, atteso che essendo stata impugnata una decisione depositata dopo l’11 settembre 2012, l’art. 360 c.p.c., n. 5, va applicato nella riformulazione operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, che, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, “deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., S.U., n. 8053 del 2014).
La nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha introdotto nell’ordinamento “un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” Cass., S.U., n. 8053 del 2014, cit.).
Nella specie, nel mentre deve senz’altro escludersi la configurabilità della motivazione apparente, deve del pari rilevarsi che la censura non evidenzia un fatto storico non preso in esame dalla decisione impugnata.
10. – Il settimo motivo è inammissibile, atteso che denuncia la statuizione sulle spese contenute nella sentenza impugnata quale effetto dell’accoglimento delle censure proposte con il presente ricorso.
11. – In conclusione, il ricorso va rigettato e il ricorrente, in applicazione del criterio della soccombenza, condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, come liquidate in dispositivo.
Poichè il ricorso, notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, è rigettato, e poichè risulta dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è assoggettato al pagamento del contributo unificato, deve dichiararsi la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, del testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi, oltre agli accessori di legge e alle spese forfetarie.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 3 maggio 2016.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2017