Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno affermato che il controllo dell’attività del giudice di merito, nel momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività è affidato alla revocazione
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale.
-Per un approfondimento: Rivista Iudicium, Le Sezioni unite si pronunciano sul “travisamento della prova”
-Per un commento sull’ordinanza interlocutoria del 27 aprile 2023, n. 11111, M. Minardi: “Travisamento della prova in Cassazione: sintesi della ordinanza interlocutoria n. 11111/2023”
LA SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. VIRGILIO Biagio – Primo Presidente f.f.
Dott. FRASCA Raffaele G. A. – Pres.te di Sezione
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere
Dott. DI MARZIO Mauro – Rel. Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere
SENTENZA
sul ricorso 28604/2020 proposto da:
A.A., B.B., in proprio e nella qualità di unici eredi legittimi di C.C., elettivamente domiciliati in Roma, Via Oslavia 30, presso lo studio dell’avvocato Dente Maria Paola, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Ferola Raffaele;
– ricorrenti –
contro
SOPRINTENDENZA ALLA GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA, in persona del Soprintendente pro tempore, MINISTERO DEI BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma, Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1017/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 11/02/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2023 dal consigliere DI MARZIO MAURO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale MUCCI ROBERTO, che ha concluso per l’inammissibilità e rigetto del terzo motivo del ricorso, con restituzione degli atti alla sezione semplice;
uditi gli avvocati Raffaele Ferola ed Emanuele Manzo per l’Avvocatura Generale dello Stato.
Svolgimento del processo
1. – A.A. e B.B., eredi del pittore C.C., hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma chiedendone la condanna alla restituzione di un’opera denominata: “Paesaggio versione anemica con smalto ed anima”.
2. – Decidendo nel contraddittorio delle parti, il giudice adito ha accolto la domanda ed ha dichiarato la Galleria Nazionale tenuta alla restituzione dell’opera.
Per quanto rileva, il Tribunale:
-) ha attribuito valore confessorio a due missive del 13 febbraio 2012 e 1° luglio 1967 provenienti dalla Galleria Nazionale;
-) ha così ritenuto provato che il dipinto fosse stato consegnato dal pittore, per il tramite della Galleria Marconi di Milano, alla Galleria Nazionale in forza di un contratto di comodato;
-) ha ritenuto d’altro canto non provato dai convenuti che il dipinto fosse stato consegnato alla Galleria Nazionale ad altro titolo.
3. – L’appello interposto dall’amministrazione, cui hanno resistito gli originari attori, è stato accolto, con conseguente rigetto della domanda di restituzione dell’opera.
Ha affermato la Corte territoriale:
-) che la controversia non aveva ad oggetto la proprietà del dipinto, ma soltanto l’esistenza del diritto personale degli eredi dell’artista alla restituzione del bene;
-) che era inammissibile la domanda di usucapione formulata, sia pure in via subordinata, dall’amministrazione appellante solo in grado d’appello;
-) che le due missive del 1967 e del 2012 provenienti dalla Galleria Nazionale non possedevano valore confessorio;
-) che l’opera neppure apparteneva all’autore, risultando da corrispondenza proveniente dalla Galleria Marconi che essa era di proprietà di un collezionista anonimo indicato con le iniziali A.U.;
-) che “conclusivamente, essendo il comodato, ai sensi dell’art. 1803 c.c. costituito a favore della GNAM da soggetto diverso dagli aventi causa dal Maestro C.C., ed essendo prescritto ex art. 2934 ss., con il decorso del decennio dalla richiesta (1967-1977) della Galleria Marconi ogni diritto a pretendere la restituzione del bene (non essendovi, nella materia, pronunce di diverso segno che possano modificare l’impostazione codicistica) la domanda di A.A. e B.B., in accoglimento del proposto appello, deve essere respinta”.
4. – Per la cassazione della sentenza A.A. e B.B. hanno proposto ricorso affidato a sei motivi.
5. – Il Ministero per i beni e le attività culturali e la Soprintendenza alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma hanno resistito con controricorso.
6. – Con ordinanza interlocutoria del 27 aprile 2023, n. 11111, la terza sezione della Corte ha ritenuto che i primi tre motivi ponessero la questione del travisamento del contenuto oggettivo della prova, e che al riguardo vi fosse un contrasto giurisprudenziale, rimettendo perciò gli atti per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite alla Prima Presidente, che ha provveduto in conformità.
7. – In vista dell’odierna udienza, nella quale il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità e rigetto del terzo motivo del ricorso, con restituzione degli atti alla sezione semplice, sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
8. – Il ricorso contiene sei motivi.
8.1. – Con il primo motivo, indicato come assorbente, i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata per violazione dell’articolo 116 c.p.c., in relazione agli articoli 2730, 2733 e 2735 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale aveva affermato che il Tribunale avesse a torto ritenuto che le lettere del 13 dicembre 2012 e 10 luglio 1967, provenienti dalla Galleria Nazionale, avessero natura di confessione, finendo per apprezzare liberamente una prova legale quale la confessione.
8.2. – Con il secondo motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione degli articoli 111 Cost. e 132, n. 4, c.p.c. per motivazione inesistente nella parte in cui la Corte territoriale aveva negato che la lettera 13 dicembre 2012 della Galleria Nazionale possedesse valore confessorio.
8.3. – Con il terzo motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione dell’articolo 115 c.p.c. per travisamento della prova nella parte in cui la Corte territoriale, dopo aver ritenuto irrilevante sia il fatto che fosse stato C.C. a scegliere le due opere da inviare attraverso la Galleria Marconi alla Galleria Nazionale perché fossero esposte in una mostra itinerante, sia il fatto che allo stesso C.C., al termine della mostra, fosse stato rivolto il ringraziamento della soprintendente dell’epoca, aveva testualmente affermato: “Peraltro, al di là delle cangianti indicazioni successivamente apposte dalla GNAM presso l’opera “Paesaggio anemico”, va detto che la Galleria fino al 1997, anno in cui – ritenendola acquisita – si provvedeva ad inserire in catalogo l’opera, assegnando alla stessa il numero 15941, correttamente si annotava a margine del dipinto la dicitura anodina “deposito”, che non era riferibile certo ad un aspetto contrattuale ma alla condizione di un bene ancora non entrato a far parte del patrimonio pubblico ma neppure connotato da uno status “contrattuale” determinato e comunque giacente presso la Galleria Nazionale”.
Con tale affermazione, secondo i ricorrenti, la Corte d’appello avrebbe stravolto le risultanze processuali, utilizzando informazioni probatorie del tutto diverse ed inconciliabili con quelle contenute nelle note della Galleria Nazionale del 13 dicembre 2012 e del 10 luglio 1967.
8.4. – Con il quarto motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa applicazione dell’articolo 1803, anche in relazione all’articolo 1325, n. 4 c.c., nonché degli articoli 1809, 1810, 1811, 1766, 1770 c.c. (e, di conseguenza, dell’articolo 113 c.p.c.) nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto che il comodato fosse sorto tra la Galleria Marconi di Milano e la Galleria Nazionale: essi hanno evidenziato come correttamente il giudice di primo grado avesse affermato che l’opera era stata “consegnata dall’autore, per il tramite della Galleria Marconi, alla GNAM in virtù di rapporto di comodato”, essendo del tutto irrilevante, ai fini del perfezionamento del contratto di comodato, che la materiale consegna della cosa non venga direttamente posta in essere dal comodante, tanto piche la Galleria Marconi, ove avesse avuto la detenzione dell’opera a titolo di deposito, non avrebbe potuto disporne, ma avrebbe potuto trasferire alla Galleria Nazionale la mera detenzione del bene, fermo restando il possesso in capo al depositante, cioè a C.C., sicché, alla morte dello C.C., la posizione del depositante si sarebbe trasferita in capo agli eredi legittimi, che avrebbero acquisito così il pieno diritto di chiedere ed ottenere la restituzione; in definitiva secondo i ricorrenti, essendo rimasto il possesso in capo al depositante C.C. e non avendo quest’ultimo chiesto la restituzione dell’opera, il dies a quo da cui far decorrere la prescrizione del diritto alla restituzione andrebbe identificato in quello della richiesta degli eredi, il 7 dicembre 2012.
8.5. – Con il quinto motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione e falsa applicazione degli articoli 1803, 1809 e 1810, nonché degli articoli 1141, 2934 e 2935 c.c. (e, di conseguenza, dell’articolo 113 c.p.c.) nella parte conclusiva della sentenza che, respingendo la domanda, avrebbe apparentemente inteso convalidare la tesi della Galleria Nazionale in ordine all’usucapione del dipinto, senza indicazione, però, dell’atto di interversione del possesso in virtù del quale la Galleria Nazionale avrebbe assunto la veste del possessore.
8.6. – Con il sesto ed ultimo motivo, articolato in via subordinata rispetto ai precedenti, i ricorrenti hanno denunciato la nullità della sentenza per violazione dell’articolo 158 c.p.c. e l’illegittimità costituzionale degli articoli 62-72 della legge n. 98 del 2013 per contrasto con l’articolo 106, comma 2, Cost. nella parte in cui il collegio della Corte territoriale, che ha pronunciato la sentenza impugnata, è stato composto con la partecipazione di un giudice onorario, che ha assunto anche le funzioni di relatore. Sostiene che detti articoli della legge n. 98 del 2013 sono norme che prevedono e regolano l’attribuzione a magistrato onorario, quale ausiliario di corte d’appello, delle funzioni di giudice collegiale, in luogo delle funzioni di giudice singolo costituzionalmente imposte.
9. – Le Sezioni Unite sono chiamate a dirimere il conflitto insorto nella giurisprudenza di questa Corte se possa dedursi in sede di legittimità, per il tramite del numero 4 dell’articolo 360 c.p.c., la violazione dell’articolo 115 c.p.c. determinata dall’essere il giudice di merito incorso nel c.d. “travisamento della prova”.
9.1. – L’ampia esposizione della tesi sostenuta nell’ordinanza n. 11111 impone di elaborarne un contenuto riepilogo, il quale può riassumersi in ciò che occorrerebbe distinguere il travisamento del fatto in cui sia caduto il giudice di merito, riconducibile all’area di applicazione dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., in concorso delle condizioni ivi previste, dal travisamento della prova, che ricorrerebbe nel caso in cui il giudice di merito abbia formato il proprio convincimento avvalendosi di una “informazione probatoria” frutto di “errore di percezione del contenuto oggettivo della prova”, e cioè abbia adottato una decisione viziata da un errore collocato non già sul versante della valutazione della prova, sottratto al giudizio di legittimità, bensì su quello percettivo: il travisamento, secondo la tesi prospettata, cadrebbe cioè sul “significante” e non sul “significato” della prova, e avrebbe portata percettiva e non valutativa.
In questo caso, secondo l’ordinanza, il c.d. “travisamento della prova” sarebbe denunciabile per cassazione ai sensi dell’articolo 360, n. 4, c.p.c. per violazione dell’articolo 115 c.p.c., disposizione che, nell’imporre al giudice di porre a fondamento della decisione le prove offerte dalle parti, consentirebbe di censurare anche le decisioni basate su “informazioni probatorie che non esistevano nel processo”, alle ulteriori seguenti condizioni: i) il contenuto informativo abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; ii) l’errore abbia carattere decisivo, e cioè tale da aver condotto ad un esito diverso da quello che, in termini di certezza, sarebbe stato raggiunto in assenza del travisamento.
9.2. – La questione del travisamento della prova è stata rimessa dalla Prima Presidente alle Sezioni Unite anche a seguito dell’ordinanza interlocutoria 29 marzo 2023, n. 8895, nel giudizio iscritto al n. 17679 del 2020, pure esso discusso all’udienza odierna.
L’ordinanza ricorda che nel vigore del codice di rito, maggiormente dopo la novella del 1950, ed ancora dopo quella del 2012, la giurisprudenza della Corte, negata per decenni ogni autonomia concettuale del travisamento della prova rispetto al travisamento del fatto, ha costantemente escluso che quest’ultimo potesse essere denunciato nel giudizio di cassazione, salvo non si fosse tradotto, ante novella del 2012, in difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, vizio motivazionale invece non più spendibile dopo quest’ultima.
10. – Il contrasto va composto svolgendo un ragionamento che si snoda come segue.
Il travisamento della prova è stato sempre considerato estraneo ai motivi spendibili con il ricorso per cassazione (Par. 10.1., 10.2., 10.3.); esso, che si assume essere un mero “errore di percezione del contenuto oggettivo della prova” (Par. 10.4.), tale, per come prospettato, non è, giacché ricomprende in sé sia il momento dell’errore percettivo del dato probatorio, sia il momento dell’errore, collocato sul piano dell’inferenza logica, nell’identificazione del contenuto informativo desumibile dal dato probatorio (Par. 10.5.); così esposta, la tesi che ammette il ricorso per cassazione per travisamento della prova si risolve nel rovesciamento della scelta legislativa inscritta nella novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., così da pervenire ad un risultato interpretativo che renderebbe l’accesso al ricorso per cassazione ancor più ampio di quanto non fosse prima del 2012 (Par. 10.6., 10.7., 10.8., 10.9., 10.10); la preoccupazione di neutralizzare il rischio che, in assenza della ricorribilità per travisamento della prova, possa cristallizzarsi “un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione” è insussistente (Par. 10.11); resta fermo che l’errore revocatorio ricorre soltanto in caso di svista del giudice nella consultazione degli atti del processo (Par. 10.12.), svista che può avere ad oggetto fatti sostanziali e processuali quale l’avvenuto deposito di documenti (Par. 10.13.); il fatto supposto esistente o inesistente, che non deve aver costituito un punto controverso sul quale il revocando provvedimento si è pronunciato, è il fatto probatorio (Par. 10.14.); ove accada che l’errore percettivo sul fatto probatorio non possa essere intercettato mediante la revocazione, perché controverso ed oggetto di pronuncia, esso costituisce motivo di ricorso ai sensi dei nn. 4 e 5 dell’articolo 360 c.p.c.; argomenti nel senso dell’ammissibilità del sindacato in Cassazione del travisamento della prova non possono trarsi dalla legge sulla responsabilità civile dei magistrati.
10.1. – Un punto fermo da considerare è che il tema del travisamento della prova, e la distinzione di esso dal travisamento del fatto, ha origini assai remote, sicché la sua emersione non può essere collocata nel 2006, con la sentenza n. 12362, come potrebbe desumersi dalla lettura dall’ordinanza n. 11111, che quest’ultima sentenza richiama.
A dimostrazione di tale affermazione basterà per ragioni di sintesi trascrivere un breve passo di dottrina: quale cenno alla storia del concetto, e non già quale citazione interdetta dal dettato dell’articolo 118 delle disposizioni di attuazione del c.p.c.
Tralasciando i codici preunitari, si legge negli “Elementi di diritto giudiziario civile italiano” del 1878, autore il Mattirolo, secondo una diffusa opinione maggiore processualcivilista del suo tempo, fintanto che non sopraggiunsero il Mortara ed il Chiovenda: “Poniamo: la questione di fatto volge sopra un contratto o sopra un testamento: se questo contratto o testamento presentasse qualche oscurità o doppiezza si riconosce generalmente che l’interpretazione fattane dal giudice del merito non andrebbe soggetta a censura di Cassazione. Parimente, se la sentenza del giudice del merito peccasse per falso supposto, vale a dire fosse il risultato di un errore evidente e involontario dei giudici … egli è certo che tale sentenza andrebbe soggetta a revocazione, non a cassazione. Ma nulla di tutto ciò il contratto o il testamento non presenta alcuna oscurità od ambiguità; d’altro canto i giudici del merito non ommisero di esaminare e di apprezzare le singole clausole del contratto o del testamento, ma incorsero in un falso giudizio sul fatto; vale a dire, col pretesto di interpretare ciche non ha bisogno di interpretazione, di spiegare ciche è chiaro e manifesto, alterarono il significato naturale delle parti, snaturarono il carattere che apertamente presenta il contratto o il testamento, ed, al concetto, che sorge come una verità evidente, intuitiva dal complesso dell’atto, ne sostituirono arbitrariamente un altro diverso. In questo caso si verifica ciche i Subalpini chiamarono travisamento, i Napoletani snaturamento del fatto, ed i Siciliani, con voce più generica, eccesso di potere. Si domanda: potrà un tale vizio aprire la via alla cassazione ed essere riparato dalla Corte suprema?”.
I fautori dell’ammissibilità del ricorso per cassazione – rammentava il Mattirolo – muovevano dall’equiparazione della violazione di legge alla violazione del contratto o del testamento, sulla base dell’allora vigente articolo 1123 c.c., che attribuiva al contratto forza di legge, ed osservavano, sintetizzava ancora lo stesso autore: “Non è forse alla Cassazione che spetta il compito di impedire qualsiasi abuso, qualunque eccesso di potere per parte delle autorità giudiziarie inferiori?”. Nihil sub sole novi, si direbbe allora nell’appurare che, oggi, l’ordinanza n. 11111 giustifica l’esigenza di ammettere la sindacabilità per cassazione del travisamento della prova, centocinquant’anni dopo, con un analogo richiamo al “valore della giustizia della decisione” da intendersi quale “valore primario del processo”.
Ora, non interessa tanto ricordare che, in seguito, il Calamandrei bollerà severamente l’equiparazione alla legge del testamento e del contratto quale “meschino artificio”, quanto constatare che, pur ammettendo la denunciabilità per cassazione del travisamento di testamento e contratto, finanche la stessa largheggiante giurisprudenza del tempo negava invece fermamente ogni possibilità di far valere il travisamento della prova: “Il travisamento di fatto non può mai essere proposto come mezzo di cassazione, quando, anziché cadere su un atto contrattuale abbia ad oggetto gli atti del giudizio ed ispecie le prove in causa formate” (Cass. Torino 16 dicembre 1879, tra le molte).
Il Mattirolo, per parte sua, stigmatizzata la contraddittorietà dell’orientamento che precede, laddove concepiva il travisamento di contratto e testamento, ma non delle prove – “Ma adunque, in alcuni casi, la Corte suprema constata l’errore evidente di fatto, e lo ripara; in altri, essa si dichiara incompetente, incapace a ripararlo!” – , si schierò, tra gli altri, contro l’ammissibilità, in generale, del ricorso per cassazione per travisamento, sottolineando, anzitutto, la fallacia dell’opinione secondo cui potrebbero darsi atti i quali parlino inconfutabilmente da soli: “Dato che la revisione, per parte della Cassazione, di un giudizio interpretativo erroneo dei tribunali ordinari dipende (come statuisce la dottrina del travisamento) dalla maggiore o minore chiarezza letterale del contratto o del testamento erroneamente interpretato, si apre naturalmente la via alle incertezze ed all’arbitrio, ben sapendosi da chicchessia che ciche per uno è chiaro ed evidente, ad altri appare dubbio ed oscuro”. Il che è poi quanto ribadito decenni dopo da Salvatore Satta, secondo il quale “il travisamento poggiava su un presupposto arbitrario, e cioè che esistano cose chiare, o che esista un fatto distinto dal giudizio di fatto, cioè fuori dalla sola interpretazione giuridicamente rilevante, quella del giudice”, ed infine, come si vedrà, con implicita citazione dal Satta, dall’ordinanza n. 8895 del 2023.
Sicché, in breve, prevalse l’orientamento seguito dalla Cassazione di Roma, secondo cui: “Non possono formar subbietto del ricorso in Cassazione i gravami fondati: a) sopra il travisamento delle clausole di un contratto; b) sopra un errore che si pretende incorso nel dedurre presunzioni dalle risultanze di una prova testimoniale, e da fatti stabiliti dagli atti della causa” (Cass. Roma 18 ottobre 1877, tra le altre).
Andando avanti di un qualche decennio, difatti, la Cassazione del Regno, pressappoco un secolo fa, a fronte della denuncia di un vizio consistente nell’avere il giudice di merito male inteso le obiettive risultanze di un accertamento tecnico, osservò – tra gli innumerevoli esempi che potrebbero offrirsi nello stesso senso – che “in queste proposizioni la ricorrente riscontra pria di tutto il travisamento del fatto. Sostiene cioè essersi affermato dal perito, che la bronco-polmonite del Grillo non ebbe causa dalla continua aspirazione del pulviscolo del carbone, come dalla Corte s’è ritenuto, ma dal brusco raffreddamento per il passaggio dall’elevata temperatura, che s’irradia dai forni, al gelido ambiente esterno…Ma la …censura non può dal Supremo Collegio essere attesa, trattandosi della valutazione delle risultanze della perizia, compiuta dai giudici di merito, che non può essere sottoposta a controllo in questa sede. Il Supremo Collegio verrebbe a trasformarsi in giudice di terza istanza – ;” (Cass. 3 novembre 1926). Il che è poi esattamente quanto ancor oggi paventa l’ordinanza n. 8895, laddove pone in evidenza l’esigenza di salvaguardare la “Corte di legittimità dal rischio …di scivolare verso una inconsapevole trasformazione in un tribunale di terza istanza”.
I pochi richiamati riferimenti non hanno, naturalmente, la pretesa, che del resto non sarebbe decisiva, di offrire una ricostruzione dettagliata degli indirizzi seguiti nel remoto arco temporale considerato, ma di mostrare che il tema del c.d. travisamento della prova ha radici antiche, e che la soluzione qui prescelta si pone in continuità con una inveterata tradizione: il tema del travisamento ha una storia secolare, e sotto forma di travisamento della prova non ha mai, in nessuna occasione, salvo nelle non molte decisioni recenti a seguito delle quali l’ordinanza n. 11111 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, varcato la soglia dell’ammissibilità nel giudizio di legittimità, finanche nell’ottica di quella giurisprudenza che, illo tempore, al travisamento un qualche spazio applicativo pur riconosceva.
10.2. – Veniamo all’oggi.
La giurisprudenza di questa Corte, in continuità con l’orientamento ricordato, è rimasta ferma per decenni nell’escludere che il travisamento costituisca vizio di legittimità tale da giustificare il ricorso per cassazione, salvo – si diceva prima della novella dell’articolo 360, n. 5, del 2012 – il controllo motivazionale. E cioè: “In sede di legittimità è precluso non solo il riesame delle prove la cui valutazione sia stata fatta in modo difforme da quella prospettata dal ricorrente, ma altresì l’accertamento di un eventuale travisamento delle prove stesse, essendo il controllo possibile solo se tale vizio logico si traduca in una insufficienza di motivazione” (Cass. 16 maggio 1968, n. 1536).
Si consideri, a titolo di esempio estremo, che non è stata giudicata ammissibile neppure la censura volta a dimostrare che il giudice di merito avesse errato nel reputare pacifica una circostanza rilevante ai fini del giudizio: le Sezioni Unite hanno difatti al riguardo fatto propria la “massima, costantemente ripetuta da questa Corte Suprema, che l’aver dato per pacifico un fatto, che si pretende contestato, non può costituire materia di ricorso per cassazione, anche se l’apprezzamento del giudice sia frutto di travisamento, soccorrendo in tal caso il rimedio della revocazione” (Cass., Sez. Un., 30 maggio 1966, n. 1412). Affermazione, questa, in seguito più volte ribadita (Cass. 18 luglio 1966, n. 1947; Cass. 14 gennaio 1967, n. 143; Cass. 31 gennaio 1967, n. 288; Cass. 30 marzo 1967, n. 696; Cass. 6 giugno 1967, n. 1244; Cass. 24 gennaio 1968, n. 197; Cass. 3 maggio 1968, n. 1376; Cass. 14 ottobre 1968, n. 3272; Cass. 29 gennaio 1969, n. 252).
E sulla scia si è ripetuto anche di recente che l’apprezzamento del giudice del merito, che abbia ritenuto pacifica e non contestata una circostanza di causa, qualora sia fondato sulla mera assunzione acritica di un fatto, può configurare un travisamento, denunciabile solo con istanza di revocazione, ai sensi dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre è sindacabile in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ove si ricolleghi ad una valutazione ed interpretazione degli atti del processo e del comportamento processuale delle parti (Cass. 14 novembre 2012, n. 19921; Cass. 14 marzo 2016, n. 4893; con la precisazione che non interessa qui approfondire, per il discorso che si va facendo, se tale indirizzo sia ancora attuale, con specifico riguardo al problema della verifica della non contestazione, dopo Cass., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8078).
Prendendo, ancora ad esempio, un caso riconducibile al c.d. travisamento per omissione, questa Corte ha giudicato la denuncia del vizio “inammissibile sia che lo si configuri come errore revocatorio, sia come vizio di motivazione su punto decisivo della controversia. Occorre premettere, secondo il costante orientamento di questa Corte, che il vizio di motivazione su un punto decisivo, denunziabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che questi, percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo di modo che l’omissione si risolve in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in maniera insufficiente o illogica. Invece se l’omessa valutazione dipende da una falsa percezione della realtà, nel senso che il giudice ritiene per una svista, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, inesistente un fatto o un documento, la cui esistenza risulti incontestabilmente accertata dagli stessi atti di causa, è configurabile un errore di fatto, deducibile esclusivamente con impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c.
Quest’ultimo sembra il caso di specie…” (Cass. 27 luglio 2005, n. 15672).
In breve, se il travisamento è frutto di un errore di percezione, soccorre la revocazione, se il travisamento è frutto di un errore di giudizio, esso rileva quale vizio motivazionale, ante novella del 2012, donde il principio, formulato nel vigore del testo dell’articolo 360 c.p.c. dell’epoca, secondo cui il travisamento dei fatti non può “costituire motivo di censura in sede di legittimità se non si risolve in omessa, deficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia” (Cass. 5 luglio 1971, n. 2093).
10.3. – Eccettuata l’ordinanza n. 11111, ed alcuni altri precedenti, siamo dunque dinanzi ad un granitico, come si usa dire in questi casi, orientamento che esclude l’ammissibilità del ricorso per cassazione civile per travisamento della prova.
Naturalmente il radicamento di un orientamento giurisprudenziale nella tradizione non esclude che possa essere prima o poi rivisitato: ma, certo, è lecito attendersi che un simile mutamento di rotta, tale da condurre all’accantonamento di un indirizzo rimasto fermo per così tanto tempo, abbia una qualche consistente giustificazione, giustificazione che viceversa come si dirà manca.
Nondimeno, occorre essere realisticamente consapevoli, ad oggi, che la tensione tra la giurisprudenza largamente dominante, che esclude la denunciabilità per cassazione del c.d. travisamento della prova, e l’opinione dissenziente manifestata nell’ordinanza n. 11111, ha un fondamento che riflette un diverso modo di intendere il giudizio di cassazione e l’ambito del sindacato di legittimità.
10.4. – Secondo l’ordinanza n. 8895, in adesione all’orientamento tradizionale, delle due l’una: o il c.d. travisamento della prova è il prodotto di un errore percettivo del giudice, ed allora il rimedio è la revocazione, o è il prodotto di un errore valutativo, ed allora non v’è rimedio (né in sede di revocazione né) in sede di legittimità. Viceversa, secondo l’ordinanza n. 11111 il c.d. travisamento della prova andrebbe a collocarsi in uno spazio logico che non è né quello dell’errore percettivo destinato ad essere intercettato dalla revocazione, nella delimitazione dell’ambito di applicabilità di questa che l’ordinanza stessa accoglie, né quello dell’errore valutativo sottratto al giudizio di legittimità: si ipotizza trattarsi di un errore percettivo – un “errore di percezione del contenuto oggettivo della prova” – denunciabile in Cassazione ai sensi dell’articolo 115 c.p.c., per il tramite dell’articolo 360, n. 4, c.p.c., giacché il giudice incorrerebbe in violazione della norma sulla disponibilità delle prove (non solo nei casi espressamente contemplati dalla disposizione, ma anche) quando pone a fondamento della decisione non “prove proposte dalle parti”, ma prove che nel processo non hanno riscontro, non esistono affatto.
Si tratterebbe insomma, dice l’ordinanza n. 11111, assumendo di mutuare l’affermazione dal settore penale, di un “errore revocatorio che però consente il ricorso al giudice di legittimità”: un errore revocatorio che non ricadrebbe entro l’ambito di applicazione dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., bensì dell’articolo 360, n. 4, in relazione all’articolo 115 dello stesso codice.
10.5. – Di cosa parliamo quando parliamo di travisamento della prova?
In adesione all’orientamento patrocinato dall’ordinanza n. 11111, si è prospettato in dottrina l’esempio del giudice che, dinanzi ad una fotografia che ritrae un’automobile, affermi che essa riproduce invece un fiume. Ora, se il problema che abbiamo dinanzi dovesse davvero porsi solo e soltanto nel caso in cui il giudice, osservando la fotografia di un’automobile, o – volendo utilizzare un paio di ulteriori paradossali esempi extragiuridici facili a riconoscere – di un lupo, o di una donna, vi intravvedesse rispettivamente un fiume, una persona anziana od un cappello, la cosa non desterebbe grande interesse per la giurisprudenza, semmai a scelta per l’oculista o lo psichiatra, dal momento che simili “travisamenti” sono in realtà sconosciuti ai repertori.
Più convenzionali sono gli esempi di “errore di percezione del contenuto oggettivo della prova” che si rinvengono nell’ordinanza n. 11111: il c.d. travisamento per invenzione, nei casi della decisione fondata su una testimonianza non mai raccolta o su un documento non mai prodotto, ed il c.d. travisamento delle risultanze probatorie in senso proprio, nel caso di dati probatori effettivamente acquisiti al processo, che il giudice legga malamente. Bisogna aggiungere che, nella tassonomia del travisamento della prova, elaborata con maggiore approfondimento dalla Cassazione penale, viene generalmente considerata una terza ipotesi: oltre a quello appena indicato come travisamento delle risultanze probatorie in senso proprio, ed al travisamento per invenzione, la mancata valutazione di una prova decisiva, c.d. travisamento per omissione (p. es. Cass. pen. 8 luglio 2022, n. 26455).
Qui, non solo in considerazione del concreto atteggiarsi della controversia esaminata dall’ordinanza n. 11111, ma anche perché le altre due figure di travisamento della prova non destano soverchie difficoltà di disciplina, occorre soffermarsi sul travisamento della prova in senso proprio. A tal riguardo l’aporia su cui si fonda la tesi sostenuta dall’ordinanza n. 11111 è palese.
Essa discorre infatti di “informazione probatoria” scaturita da un “errore di percezione del contenuto oggettivo della prova”, ma anche di dato probatorio dal quale il giudice abbia tratto informazioni probatorie “che non si lasciano in alcun modo ricondurre … alla fonte”: ora, il punto è che si tratta di casi diversi, giacché da un lato vi è quello, tradizionale, del deficit di comprensione sensoriale del giudice, dall’altro lato il deficit “nell’elaborazione di contenuti informativi che non si lasciano in alcun modo ricondurre, neppure in via indiretta o mediata, alla fonte alla quale il giudice di merito ha viceversa inteso riferirle”.
L’ordinanza discorre ad entrambi i riguardi di deformazione, alterazione, fraintendimento del contenuto oggettivo della prova, a voler intendere che la rilevazione del travisamento della prova in senso proprio richiederebbe in ogni caso un’attività di semplice constatazione del – diremmo – tangibile, palpabile disallineamento tra ciò che la prova dice e ciò che il giudice vi ha letto. Ma, così costruita, la nozione di travisamento della prova in senso proprio manifesta invece una natura ancipite, giacché agglomera in sé due distinti momenti cognitivi, collocati su piani giuridicamente diversi, quello della percezione e quello della valutazione: e cioè, nell’ambito dell’attività ricognitiva “del contenuto oggettivo della prova”, la tesi estensiva fa sì confluire il momento identificativo del significante dell’elemento di prova, ma vi fa confluire parimenti il momento volto a stabilire quali informazioni siano ricavabili da una data fonte, ed in base a quale percorso logico-argomentativo: il che è del resto riconosciuto dall’ordinanza n. 11111, laddove essa afferma, come si è visto, che il travisamento della prova ricorrerebbe a fronte della “assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre”.
Il travisamento della prova, insomma, si dilata ben al di là della semplice percezione del significante: esso non consta soltanto dell’errore nella mera percezione del dato probatorio fermo nella sua oggettività, ma si estende all’individuazione, per via di inferenza logica, del contenuto informativo che dal significante si stima potersi desumere.
Questo è, al fondo, il proprium dell’indirizzo: intendere come errore revocatorio anche il fraintendimento in ordine al contenuto informativo ricavabile dal dato probatorio, il che suscita il quesito se il qualificare un simile errore come percettivo abbia un fondamento sistematico. Ora, se si dovesse ragionare dal punto di vista dell’epistemologia o delle neuroscienze, la stessa distinzione tra un momento percettivo ed uno valutativo nella formazione di una falsa rappresentazione della realtà potrebbe entrare in crisi, basterebbe citare il celebre motto secondo cui “non esistono fatti ma solo interpretazioni”: ma qui occorre stare semplicemente al dato normativo, che distingue con nettezza tra percezione e valutazione, ed identifica l’errore percettivo, come si tornerà a dire tra breve, in nient’altro che in una mera svista rilevabile ictu oculi.
Ebbene, a fronte di simile costruzione, le Sezioni Unite giudicano tuttora risolutiva l’obiezione contenuta nell’ordinanza n. 8895, la quale, come si è visto, non è altro che la riproposizione di un argomento la cui forza è testimoniata dall’impiego fattone nel corso del tempo, senza che esso argomento sia andato incontro a confutazioni tali da inficiarne il valore: intanto l’individuazione del contenuto informativo ricavabile dal dato probatorio potrebbe dirsi riconducibile ad un approccio semplicemente percettivo, e non valutativo, in quanto potessero concepirsi “prove chiare”, prove riguardo alle quali – potrebbe dirsi – neppure sia predicabile alcuna cesura tra significante e significato; è al prezzo di simile contraddizione in termini che si pretenderebbe di dare ingresso, nel processo, al “fatto” distinto dal giudizio di fatto, al di fuori cioè della sola interpretazione giuridicamente rilevante delle prove volta ad individuare quali siano i contenuti informativi che la prova veicola.
Un esempio liberamente concepito adattando un episodio di cronaca di molti anni addietro dovrebbe essere utile: immaginiamo che, in una causa di risarcimento del danno da diffamazione, il giudice di merito abbia a disposizione, tra l’altro materiale probatorio da governare, un’intercettazione telefonica di un banchiere, il preteso danneggiante, che il giudice ascolta, riconoscendovi l’affermazione, riferita al danneggiato, che quello “mi ha sbancato”, il che potrebbe confermare la tesi del danneggiato il quale sostiene di essere stato diffamato dal banchiere con l’accusa di aver ricevuto da lui dei denari; se in realtà il banchiere non ha detto “mi ha sbancato”, ma “mi ha sbiancato”, siamo dinanzi ad un errore percettivo; se, invece, il giudice ha bene inteso la frase effettivamente pronunciata dal banchiere, e da ci traendo argomento dal valore polisemico del verbo sbancare, ha tratto l’informazione probatoria che il danneggiato, col suo trattore, ha eseguito un’opera di sbancamento di un terreno del banchiere, e cioè di scavo con asportazione di terra e roccia, non siamo ad un errore di percezione, ma di valutazione, per quanto strampalata.
Ed in effetti, se si guarda al caso esaminato dall’ordinanza n. 11111, la natura ancipite, bifronte del travisamento della prova appare in tutta la sua evidenza: essa ha sollevato il problema in un caso in cui il giudice di merito, nell’ambito del complessivo governo del materiale istruttorio, aveva motivatamente ritenuto che due dichiarazioni provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma non avessero natura confessoria. E cioè il travisamento della prova, ciche in linea di principio si dice consistere in un “errore di percezione”, si pretende nella pratica rimanga integrato dall’avere il giudice di merito posto a sostegno della decisione, come meglio si vedrà più avanti, un dato probatorio che, pur sottoposto dal giudice di merito ad una penetrante motivata disamina critica, il collegio di legittimità ha opinato dovesse leggersi diversamente.
10.6. – Una volta constatato che l’ordinanza n. 11111 intende la verifica del “contenuto oggettivo della prova” in un senso dilatato, comprensivo così di un momento percettivo, come di un successivo approccio valutativo volto ad individuare i contenuti informativi che il dato probatorio univocamente fornirebbe, occorre guardare al tema in esame avendo realistica consapevolezza del vero bersaglio che l’accoglimento della tesi sostenuta dall’ordinanza finirebbe per abbattere: bersaglio che appare essere costituito dall’assetto del giudizio di legittimità scaturente dalla riformulazione del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. all’esito della riforma del 2012, nella complessiva lettura datane da una decisione che, a ragione, costituisce da anni un punto fermo nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite, Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053.
Che questa sia in effetti la posta in gioco è del resto riconosciuto dalla stessa ordinanza, laddove ammette che la questione del travisamento della prova si sarebbe “posta in tutta la sua complessità …a seguito delle già ricordate modifiche del 2012 apportate alla previsione concernente il difetto di motivazione: di qui, la scarsa rilevanza, anche sul piano teorico, delle numerose decisioni, rese in subiecta materia, in epoca precedente a tale data”.
Secondo l’ordinanza, dunque, non vi sarebbe ragione di attribuire peso all’osservazione che il travisamento della prova non sia mai stato ammesso per decenni, quando l’articolo 360 c.p.c. consentiva di denunciare la generica insufficienza della motivazione, ed anzi sarebbe proprio la soppressione di un così esteso controllo motivazionale a rendere ammissibile, nonché costituzionalmente e convenzionalmente necessitato, nell’ottica dell’effettività della tutela giurisdizionale, il sindacato del travisamento della prova nel giudizio di cassazione.
10.7. – Non corrisponde però al vero che il problema si sia posto dopo il 2012, e non prima, perché necessitato dalla riforma che ha modificato il n. 5 dell’articolo 360 c.p.c.: non solo il travisamento della prova non era ammesso anteriormente alla novella del 1950, quando il testo del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. era quasi identico all’attuale, ma l’articolo 517 c.p.c. previgente, nel vigore del quale il travisamento della prova, come si è detto in precedenza, non aveva cittadinanza, non prevedeva alcun controllo motivazionale, che era fatto rientrare dalla giurisprudenza di legittimità nella previsione di nullità “a norma dell’articolo 361”, i.e. per l’omissione dei “motivi in fatto ed in diritto”, omissione intesa quale vizio formale, ossia come error in procedendo, che, stando al dato normativo, non consentiva alla Corte il sindacato sul contenuto della motivazione esistente, ma claudicante: come è stato rilevato dal Calamandrei, si trattava di un controllo sul difetto formale di motivazione (per carenza grafica dei motivi), più che di un vaglio su una motivazione insufficiente o contraddittoria. Il che non vuol dire che anche allora, all’occasione, la Corte non potesse indugiare ad un uso disinvolto del difetto di motivazione, secondo la mordace osservazione del Mortara (che fu Primo Presidente della Corte di cassazione di Roma), a mo’ di espediente con cui essa Corte, “(quando non si debba dire invece il relatore del ricorso), mette in pace la propria coscienza coi dubbi che accoglie intorno alla giustizia o alla perfetta legalità della decisione”.
10.8. – Posto, dunque, che il vigente dato normativo non è espressione di una innovazione non meditata o improvvisata, l’auspicio a neutralizzare la portata della riforma del 2012, con la riduzione del controllo motivazionale che essa ha comportato, attraverso l’introduzione della sindacabilità per cassazione del travisamento della prova, va disatteso, prima di ogni altra considerazione, poiché si risolve nel palesato intento, confliggente con la stessa funzione istituzionale della Corte di cassazione di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, ed al precetto costituzionale che vuole il giudice soltanto alla legge, ma a quella certamente sottoposto, di ribaltare l’assetto che il legislatore ha inteso dare al giudizio di legittimità.
10.9. – Lo scopo perseguito con la riformulazione avutasi nel 2012 del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. è ben noto: la sostituzione della “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio” – formula che, osservano le Sezioni Unite, attribuiva alla Corte di cassazione un potere assoluto su qualunque decisione di merito, attesa l’insuperabile indeterminatezza della nozione di motivazione insufficiente, con il conseguente incremento del rischio di randomizzazione del giudizio – con l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” è stata dettata dall’intento di indebolire l’assedio dei ricorsi alla Corte di cassazione, com’è testimoniato già dall’osservazione che la novella del 2012 è contenuta in un decreto-legge diretto all’adozione di “Misure urgenti per la crescita del Paese”.
Il nuovo assetto derivante dalla novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. è stato poi esaminato ed organicamente ricomposto nella nota Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053, nell’attento rispetto del quadro costituzionale.
Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno chiarito che la riforma ha introdotto nell’ordinamento, nel n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Si tratta di un vizio normalmente extratestuale (giacché è possibile ma non certo probabile che il giudice di merito riferisca di un fatto storico controverso e decisivo, ma poi ometta di esaminarlo ai fini della decisione).
La riformulazione del n. 5 ha poi determinato il rifluire nel n. 4 dell’articolo 360 c.p.c., per il tramite delle norme che impongono al giudice l’obbligo di motivazione, del vizio motivazionale nella quadruplice (o forse meglio duplice, giacché le prime due ipotesi attengono all’esistenza della motivazione, le altre due alla sua tenuta logica) nota declinazione che le Sezioni Unite ne hanno dato: la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico” e la “motivazione apparente”; il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”. In questo caso – occorre evidenziare per quanto si dirà più avanti – il vizio è testuale, come lo era in precedenza il vizio motivazionale regolato dal previgente n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. (la cosa è scontata, solo a titolo di esempio si cita tra le tante Cass., Sez. Un., 11 giugno 1998, n. 5802).
Qui, allora, una ovvia sottolineatura: la novella non ha soppresso il controllo motivazionale, ma lo ha semplicemente circoscritto entro più ristretti e delineati limiti, con un coefficiente di tassatività maggiore rispetto al passato, ed in particolare al concetto lasco e sfuggente di motivazione genericamente insufficiente, limiti che, può aggiungersi, sono i medesimi che da sempre presiedono al controllo motivazionale del lodo arbitrale (Cass. S.U., n. 24785/2008; Cass. n. 11301/2009; Cass. n. 28218/2013; Cass. n. 16077/2021), che pure non è pronunciato da un giudice professionale, e contro i quali, per la verità, non sembra si siano mai levate vibrate proteste, senza dire che la Cassazione ha stabilmente applicato i medesimi limiti al ricorso straordinario di cui all’articolo 111 della Costituzione (tra le tantissime Cass., Sez. Un., 16 maggio 1992, n. 5888), fintanto che il legislatore non è intervenuto sulla materia introducendo nell’articolo 360 c.p.c. l’odierno ultimo comma.
Ora, immediatamente dopo la novella del 2012 una larga parte della dottrina, che si può supporre abbia influenzato anche l’indirizzo giurisprudenziale che ammette il sindacato del travisamento della prova, ha adottato a commento di essa toni che, a fini semplicemente di sintesi, potrebbero definirsi cupamente millenaristi, perché – si è in buona sostanza sostenuto – l’improvvido legislatore, attento soltanto al fare presto, avrebbe reso il giudizio di cassazione radicalmente monco del controllo motivazionale, e una Cassazione che non può controllare la motivazione delle sentenze dei giudici di merito non è una Cassazione. Taluno si è interrogato sul se un così marcato restringimento delle maglie del controllo sulla motivazione potesse reggere nel tempo o, piuttosto, non finisse con il riaprire nuovi spazi di sindacato attraverso altri motivi di ricorso per cassazione: ed in effetti questa tensione, come si è detto, c’è e permarrà. Ma, a distanza di oltre dieci anni dalla riforma, e dopo che le Sezioni Unite hanno definito l’ambito del controllo motivazionale nei termini anzidetti, occorrerebbe ormai arrendersi ad ammettere che la lettura della riforma poc’anzi descritta come millenarista non aveva fondamento, che il mondo (quello racchiuso negli articoli 360 e seguenti c.p.c.) non si è dissolto in cenere, che la notizia della morte del giudizio di cassazione si è rivelata fortemente esagerata, ed il controllo motivazionale, come si diceva, è stato soltanto circoscritto entro limiti non giugulatori, com’è testimoniato del resto dal larghissimo impiego, nella pratica, del motivo formulato in relazione all’articolo 132, n. 4, c.p.c.
10.10. – Il vizio di travisamento della prova può essere talora rilevato alla lettura della sentenza, ma è evidentemente per lo più un vizio extratestuale, ed è per questo che l’articolo 606 c.p.p., dopo la riforma del 2006, consente di ricorrere per cassazione per “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”. E cioè, per verificare, tornando all’esempio richiamato, che la fotografia posta a fondamento della decisione impugnata per cassazione ritrae un’automobile e non un fiume, il giudice di legittimità deve esaminare la fotografia.
Se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, inteso nel senso bifronte di cui si è detto, rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre il significato che ad esso è riconosciuto (si tratta di indirizzo scontato, sicché basterà citare Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867), il giudizio di cassazione obbiettivamente scivolerebbe verso un terzo grado destinato a svolgersi non sulla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle “carte” processuali, sicché la latitudine del giudizio di legittimità neppure ripristinerebbe l’assetto ante riforma del 2012, ma lo espanderebbe assai di più, consentendo appunto l’ingresso a censure concernenti il menzionato vizio extratestuale.
Insomma, per dirla con chiarezza, la ricorribilità per cassazione per travisamento della prova assegnerebbe alla Corte di cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito.
Un simile ampliamento del controllo di legittimità, per di più diverrebbe ancor più esteso di quello ammesso nel giudizio di cassazione in sede penale, ove il travisamento della prova deve necessariamente inalvearsi nel ricorso per cassazione, dal momento che il giudizio penale non conosce il rimedio della revocazione. Così, difatti, Cass. pen. 8 luglio 2022, n. 26455, dopo aver ricordato che il vizio di travisamento della prova chiama in causa “le ipotesi di infedeltà della motivazione rispetto al processo e, dunque, le distorsioni del patrimonio conoscitivo valorizzato dalla motivazione rispetto a quello effettivamente acquisito nel giudizio”, soggiunge che tale vizio “vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova”.
10.11. – Al fondo dell’ordinanza n. 11111 vi è una preoccupazione, che essa esplicita nel dire che, a negare la sindacabilità col ricorso per cassazione del travisamento della prova, si finirebbe per secondare il consolidarsi di “un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione, in contrasto con il principio dell’effettività della tutela, qualora essa si fondi sulla ricognizione obbiettiva del contenuto della prova che conduca ad una conclusione irredimibilmente contraddetta, in modo tanto inequivoco quanto decisivo, dalla prova travisata, su cui le parti hanno avuto modo di discutere”.
Ad una simile preoccupazione le Sezioni Unite riconoscono il massimo rilievo: ma il fatto è che il rischio dell’inemendabilità del travisamento della prova, nei termini prospettati, è dall’ordinamento già neutralizzato.
E cioè un travisamento della prova, nel suo “contenuto oggettivo”, non denunciabile per revocazione, che occorrerebbe spendere nel giudizio di legittimità, non esiste: il travisamento della prova in senso proprio, come si è detto, è difatti un travisamento bifronte, al quale possono ricondursi sia il momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività, sia il momento dell’individuazione delle informazioni probatorie che dal dato probatorio, considerato nella sua oggettività, possono per inferenza logica desumersi.
Ebbene, per un verso, il momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività è per sua natura destinato ad essere controllato attraverso lo strumento della revocazione; per altro verso il momento dell’individuazione delle informazioni probatorie che dal dato probatorio possono desumersi è, come è sempre stato, affare del giudice di merito, ed è per questo sottratto al giudizio di legittimità, a condizione, beninteso, non dissimilmente dal passato, che il giudice di merito si sia in proposito speso in una motivazione eccedente la soglia del “minimo costituzionale”.
In questo secondo caso non v’è il rischio del consolidarsi di “un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione”, giacché, una volta che il giudice di merito abbia fondato la propria decisione su un dato probatorio preso in considerazione nella sua oggettività, pena la rettifica dell’errore a mezzo della revocazione, ed abbia adottato la propria decisione sulla base di informazioni probatorie desunte dal dato probatorio, il tutto sostenuto da una motivazione rispettosa dell’esigenza costituzionale di motivazione, si è dinanzi ad una statuizione fondata su basi razionali idonee a renderla accettabile. Non residua allora nient’altro che l’eventualità che la Corte di cassazione sia di opinione diversa dal giudice di merito “intorno alla giustizia o alla perfetta legalità della decisione”, per riprendere la citazione fatta poc’anzi, ma questa è un’eventualità che al diritto vigente non interessa.
10.12. – Il controllo dell’attività del giudice di merito, nel momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività è, come si diceva, affidato alla revocazione.
Secondo l’articolo 395, n. 4, c.p.c.: “Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: …se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.
La chiave di volta della disposizione è il sostantivo “supposizione”, riferita ad “un fatto”. Il giudice di merito, ma dall’introduzione dell’articolo 391 bis c.p.c. anche la Corte di cassazione, non conosce del fatto, non giudica sul fatto, lo suppone, e lo suppone contro una cartesiana evidenza bidirezionale, trattandosi di un fatto che è incontrastabilmente escluso o positivamente stabilito. La falsa supposizione non è frutto di una scelta deliberata, ragionata, è una falsa rappresentazione della realtà da ascrivere ad un abbaglio dei sensi, a disattenzione, distrazione, in buona sostanza ad una svista, la quale ricorre – si è autorevolmente osservato con formula tanto poco curiale quanto appropriata a fotografare ciò che in concreto accade nell’operare del giudice – quando il giudice prende “fischi per fiaschi e …verità per buggerate”. In breve, una svista del giudice nella consultazione degli atti del processo.
Si tratta, in particolare, di una svista non dissimile da quella in cui il giudice incorre in caso di errore materiale emendabile ai sensi dell’articolo 287 c.p.c., ma con la differenza che l’errore materiale è un errore esclusivamente testuale (meglio, quasi esclusivamente: v. Cass., Sez. Un., 7 luglio 2010, n. 16037, per il caso di omessa distrazione delle spese), riscontrabile come si suol dire ictu oculi, e che, come tale, è suscettibile di essere corretto con una procedura di natura sostanzialmente amministrativa, quale quella di cui al citato articolo 287, proprio perché, trattandosi di errore testuale auto-evidente, la sua correzione non necessita di intervenire sulla ratio decidendi che sostiene la decisione affetta da errore, ricostruendo quale essa ratio decidendi sia.
Viceversa, l’errore revocatorio è un errore non testuale, che si rivela attraverso la messa a confronto di due divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, da un lato quella risultante dalla decisione del giudice, dall’altro quella, contrastante, tale da smentire la rappresentazione offerta dal giudice, che emerge univocamente dagli atti e documenti acquisiti al processo.
È per questo che l’errore revocatorio (quando non possa essere fatto valere con l’appello) ha da essere intercettato attraverso la revocazione, perché dal compito istituzionale della Cassazione deriva che essa, estranea al giudizio di fatto, debba ricevere questo giudizio già formato: e se il giudice di appello sia incorso in una svista, è a lui che spetta di porvi rimedio, a mezzo della revocazione per errore di fatto, al fine di eventualmente consegnare al giudice di legittimità un fatto già definitivamente ricostruito nella sua oggettività.
Infine, l’errore materiale, come quello revocatorio, è un errore commissivo, tant’è, quanto a quest’ultimo, che esso non ricorre in caso di semplice omesso esame di un fatto, sostanziale o processuale che sia (Cass., 26 maggio 2021, n. 14610; Cass. 21 luglio 2010, n. 17110).
10.13. – La revocazione per il motivo in esame è ammessa dalla giurisprudenza di questa Corte rispetto a qualsiasi fatto, sia sostanziale che processuale (v. p. es. per quest’ultima ipotesi i casi esaminati da Cass. 18 luglio 2008, n. 19924, e Cass. 14 novembre 2016, n. 23173), sempre che, ovviamente, tra la svista concernente il fatto e la statuizione adottata intercorra un nesso di necessità logica e giuridica tale da determinare, in ipotesi di percezione corretta, una decisione diversa (p. es. Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2009, n. 1666).
In particolare, è fermo l’orientamento secondo cui è suscettibile di revocazione la decisione adottata sulla base dell’affermazione, dovuta a mera svista, dell’inesistenza in atti di un determinato documento, che risulti invece ritualmente prodotto (la più remota che sembra rinvenirsi al CED della Corte di cassazione è Cass. 4 ottobre 1971, n. 2697, secondo cui: “Se la parte assume che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., sempre che ne ricorrano le condizioni”; la più recente Cass. 20 marzo 2023, n. 7973).
10.14. – Il fatto supposto esistente o inesistente non deve aver costituito un punto controverso sul quale il revocando provvedimento si è pronunciato. È quindi esclusa la rilevanza dell’errore, che per ciò stesso cessa di essere un errore revocatorio ed assume i caratteri dell’errore di giudizio, quando sul fatto il giudice si sia pronunciato, giacché l’errore percettivo è intrinsecamente incompatibile con il giudizio. Come si è già detto, la distinzione tra momento percettivo e momento valutativo non potrebbe essere intaccata neppure da considerazioni provenienti dalle neuroscienze o dall’epistemologia, giacché ciò che rileva è la logica del processo giurisdizionale, per la quale se c’è controversia c’è giudizio, e se c’è giudizio non c’è errore percettivo.
Qui occorre una breve ulteriore precisazione. L’ordinanza n. 11111, infatti, ricorda che la revocazione non può essere impiegata quando il fatto abbia costituito un punto controverso sul quale il giudice ebbe a pronunciarsi: in questa ipotesi, si sostiene, il rischio del consolidarsi di “un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione” era scongiurato, prima della novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., attraverso la possibilità della denuncia del vizio motivazionale: sicché – questa la conseguenza tratta dalla premessa – dopo la novella occorrerebbe ammettere la denuncia per cassazione del vizio di travisamento della prova, dal momento che la possibilità di emendare il provvedimento giurisdizionale dall’errore percettivo rappresenta, com’è indubbio, un irrinunciabile presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale (basterà rammentare Corte cost. 5 maggio 2021, n. 89).
Con riguardo all’errore revocatorio che sia effettivamente tale – quale non è quello concernente l’informazione probatoria ritraibile per via logica dal dato probatorio acquisito al giudizio – occorre sottolineare che il carattere controverso del fatto “sul quale la sentenza ebbe a pronunciare” attiene non ai fatti da provare cui si riferisce l’articolo 2697 c.c., ma al fatto probatorio rilevante per i fini del giudizio: la svista del giudice cade sulla c.d. percezione semplice o percezione oggettuale, documento, foto, dichiarazione, indizio, e così via. Nel caso della fotografia, che ritrae un autoveicolo, prodotta in giudizio a dimostrazione dei danni da esso subiti, fotografia in cui il giudice ravvisa invece un fiume, il carattere controverso del fatto sul quale la sentenza ebbe a pronunciare intanto sussiste, in quanto, a fronte della produzione della fotografia da parte del preteso danneggiato, l’altra parte neghi trattarsi della fotografia di un autoveicolo e sostenga trattarsi, appunto, della raffigurazione di un corso d’acqua. Solo in questo caso, ove il giudice affermi trattarsi della fotografia di un fiume, “la sentenza ebbe a pronunciare” sul fatto probatorio controverso. Se, viceversa, la controparte osserva ad esempio che la fotografia è priva di valore probatorio perché rappresenta un veicolo diverso da quello danneggiato, o non è chiara, o da essa il veicolo risulta essere in perfetto stato, ed il giudice, collocandosi al di fuori del dibattito processuale, nega alla fotografia valore probatorio perché rappresenta un fiume, ciò non esclude la svista, che anzi rimane tal quale. Insomma, il fatto (probatorio) costituisce un punto controverso sul quale il giudice di merito pronuncia quando il suo giudizio riflette la prospettazione, in proposito, di una delle parti.
È chiaro, allora, che il problema posto dall’ordinanza n. 11111 appare essere, realisticamente, un problema alquanto marginale: l’errore materiale è una svista del giudice nella consultazione degli atti del processo, ed una svista è, nel linguaggio comune, un errore, non grave, soprattutto in uno scritto, dovuto piche altro a disattenzione; etimologicamente la svista è difatti un errore che si commette per non avere visto bene; ora, ove il fatto probatorio sia controverso, nel senso dianzi indicato, e cioè qualora le parti abbiano mobilitato l’attenzione del giudice sul fatto probatorio, oggetto di contrapposte letture, appare almeno improbabile che una svista abbia a verificarsi.
10.15. – Ma, ammettiamo che accada l’imponderabile, che tra le parti si svolga un surreale dibattito sul quesito se una fotografia, che palesemente rappresenta un’autovettura, non rappresenti invece un fiume, e che il giudice, prendendo atto del dibattito, affermi che l’autovettura rappresenta proprio un fiume.
In questo caso non vi è spazio per la revocazione, secondo quanto stabilisce l’articolo 395, n. 4, c.p.c. (v. p. es. Cass. 15 dicembre 2011, n. 27094). E bisogna allora interrogarsi sul come il consolidamento di tale “inemendabile forma di patente illegittimità della decisione” debba essere contrastato.
Ritengono le Sezioni Unite che in una simile ipotesi nulla osti alla formulazione del motivo di cui, a seconda dei casi, ai nn. 4 e 5, dell’articolo 360 c.p.c., sussistendone di volta in volta i necessari presupposti, che qui è superfluo ricapitolare. Il punto è che, nella patologica ipotesi considerata, il giudice ha pur sempre supposto un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita: il fatto posto a sostegno della decisione, quantunque il giudice abbia deciso, non esiste nei termini in cui egli lo ha recepito; si tratta, diremmo, di un non-fatto, un fatto la cui considerazione, nella sua effettiva oggettività, è stata in fin dei conti omessa.
Sicché, l’affermazione secondo cui, se l’errore è frutto di un’omessa percezione del fatto, essa è censurabile ex articolo 360, n. 5, c.p.c., se si riferisca a fatti sostanziali, ovvero ex articolo 360, n. 4, c.p.c., ove si tratti di omesso esame di fatti processuali (v. in tali termini le già richiamate Cass., 26 maggio 2021, n. 14610; Cass. 21 luglio 2010, n. 17110), va estesa al caso in cui il giudice di merito abbia supposto un non-fatto, un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, con la finale precisazione che un simile errore, che si è detto essere commissivo, è pur sempre omissivo dall’angolo visuale del risultato che determina nel giudizio. Pare residuare soltanto l’ipotesi che l’errore revocatorio sia commesso dal giudice di primo grado, il soccombente lo denunci con l’appello ed il giudice d’appello rigetti l’impugnazione: anche in questo caso, a fronte della supposizione di un non-fatto, l’applicazione della regola appena riassunta non è esclusa dall’operatività dell’articolo 360, quarto comma, c.p.c., che richiede pur sempre un’effettiva cognizione in fatto, che nella specie, per le ragioni testé evidenziate, manca.
10.16. – Argomenti nel senso dell’ammissibilità del sindacato in Cassazione del travisamento della prova, va da ultimo ricordato, non possono essere desunti neppure dall’articolo 2, commi 2 e 3, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sulla considerazione che sarebbe paradossale che l’ordinamento giuridico concepisca rimedi risarcitori dell’errore commesso dal magistrato e non rimedi volti a neutralizzarlo, impedendo a monte che si esso si consolidi.
Quest’argomento, pur autorevolmente sostenuto, è suggestivo, ma privo di fondamento. Il citato articolo 2, laddove si riferisce al travisamento del fatto e della prova, è da ritenere riguardi infatti il giudizio penale, nel quale, difettando il rimedio della revocazione, operano travisamento del fatto e della prova, denunciabili in Cassazione secondo l’articolo 606, lett. e, c.p.p. D’altro canto, per quanto attiene al settore civile, l’errore di fatto su circostanza controversa continua ad essere considerato nell’articolo 2 errore percettivo e non cattiva valutazione della prova, perché il “fatti salvi” di cui al comma 2 non va inteso come deroga alla esclusione dall’ambito di applicabilità della valutazione del fatto e della prova, con la conseguenza che il comma 3 rinvierebbe pur sempre ad attività valutativa, ma come esclusione dall’ambito delle valutazioni di fatto e prova della fattispecie prevista dal comma 3. Se così non fosse dovrebbe ritenersi che l’errore revocatorio di cui all’articolo 395, n. 4, c.p.c. sia compreso nella fattispecie del comma 3, quale valutazione e non percezione, il che non può essere perché in assenza di controversia non può esserci giudizio: il “fatti salvi” significa allora che intanto la fattispecie del comma 3 comprende ipotesi di responsabilità civile, in quanto non si tratti di attività di giudizio, e che la disposizione contempla ipotesi che il codice processuale tradizionalmente intendeva quali giudizi, in quanto errori su circostanze controverse, non intercettate dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., ma che ora vengono equiparati ad errori percettivi. In fin dei conti, l’articolo 2 si riferisce, per quanto qui interessa, all’errore revocatorio su fatto controverso, e qui il controllo volto ad impedire il consolidamento dell’errore ricorre nei termini già illustrati, mentre l’errore revocatorio su fatto incontroverso è fuori dalla portata della disposizione, giacché l’ordinamento si contraddirebbe se lo riconducesse simultaneamente agli ambiti di applicabilità degli articoli 395, n. 4, c.p.c. e 2 della citata legge.
10.17. – La disamina del contrasto si conclude con l’affermazione del seguente principio di diritto: “Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale”.
11. – Passando all’esame dei motivi di ricorso per cassazione, essi sono tutti inammissibili o infondati.
11.1. – Il primo mezzo è infondato.
11.1.1. – Nel 2012 gli eredi D.D. hanno richiesto alla Galleria Nazionale la restituzione del dipinto “Paesaggio versione anemica con smalto e anima”, risalente al 1965, che il loro dante causa, secondo la tesi sostenuta, avrebbe consegnato alla Galleria Nazionale, unitamente ad un altro dipinto, “Vero Amore 1965”, per il tramite della Galleria Marconi di Milano, perché fossero esposti in una mostra itinerante conclusasi nel 1967.
In particolare, gli originari attori hanno domandato all’adito Tribunale di Roma di “ordinare alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea … di restituire … l’opera pittorica-dipinto eseguita e di proprietà del defunto pittore C.C. denominata “Paesaggio versione anemica con smalto e anima” detenuto da essa Galleria senza titolo alcuno”.
I convenuti Ministero dei beni culturali e Soprintendenza hanno replicato che, al momento del prestito, l’opera non apparteneva al pittore, bensì ad un anonimo collezionista identificato con le sole iniziali A.U., aggiungendo che “il diritto del comodante alla restituzione …deve ritenersi ormai prescritto nell’ordinario termine prescrizionale, vale a dire, allo scadere del decennio decorrente dalla data nella quale il comodatario – avuta richiesta di restituzione della cosa da parte dello Studio Marconi, per conto del comodante – avrebbe dovuto riconsegnare l’opera …nonostante la mancata riconsegna di “Paesaggio anemico” lo Studio Marconi non ha mai reclamato la restituzione in nome e per conto del collezionista …Pertanto, quale che sia la causa della mancata riconsegna alla Galleria Marconi dell’opera, è certo che la stessa, soggetto che aveva agito quale mandatario del proprietario A.U., non rivendicò mai la restituzione dell’opera a favore del legittimo proprietario né lo fece quest’ultimo …dalla fine di agosto 1977, l’opera, mai rivendicata dai legittimi possessori, è passata nella piena disponibilità della Galleria per effetto della c.d. interversio possessionis, ex art. 1141 c.c., determinando l’acquisto per usucapione che, trattandosi di bene già appartenente a soggetto-legittimo proprietario, ancorché non specificamente individuato, è intervenuta ai sensi del secondo comma dell’art. 1161 c.c.”.
11.1.2. – In breve, cioè, gli attori hanno spiegato una domanda di restituzione della cosa perché detenuta dalla Galleria Nazionale sine titulo, mentre i convenuti hanno replicato che il dipinto non apparteneva a C.C., bensì all’ignoto collezionista A.U., e che la Galleria Marconi aveva – essa – dato comodato l’opera alla Galleria Nazionale, la quale ne era poi divenuta proprietaria per usucapione, essendosi realizzata l’interversione del possesso per il fatto stesso che la Galleria Marconi aveva richiesto la restituzione dell’opera alla Galleria Nazionale, la quale – in ciò concretizzandosi l’opposizione nei confronti del possessore – non vi aveva ottemperato.
11.1.3. – A fronte di tale quadro assertivo, il Tribunale ha accolto la domanda, affermando che gli eredi D.D. gli erano subentrati nella veste di comodanti, come tali legittimati a promuovere l’azione di restituzione, ed onerati, per i fini dell’accoglimento della domanda, della sola prova dell’avvenuta consegna: secondo il Tribunale, cioè, era stato C.C. a dare il dipinto in comodato alla Galleria Nazionale.
A fondamento della decisione il primo giudice ha posto le risultanze di due missive provenienti dalla Galleria Nazionale e, secondo il Tribunale, contenenti dichiarazioni confessorie:
-) la più recente, del 2012, del seguente tenore: “Nel 1965, in occasione della mostra itinerante di arte italiana che si tenne a Cannes, Dortmund, Colonia, Bergen, Oslo, Edimburgo ed Oxford furono richieste a C.C. (presso lo Studio Giorgio Marconi di Milano) due opere: Vero Amore 1965 e Paesaggio anemico …1965. Al termine del tour, il 10 luglio 1967, la Soprintendente Palma Bucarelli scrisse a C.C. perché riprendesse le due opere, ma, mentre Vero Amore venne ritirato, Paesaggio anemico restò in Galleria, senza mai più essere reclamato da alcuno. Nel 2009, dopo una lunga permanenza nel registro provvisorio e dopo essere stata esposta anche nella grande antologia D.D. 1934-1998, organizzata alla galleria nazionale d’arte moderna in collaborazione con l’Archivio C.C. da Lei assistito, l’opera è stata inventariata con il numero 15941”;
-) la più remota, del 1967, non risulta trascritta né nel ricorso e controricorso, e neppure nelle memorie illustrative, né nella sentenza impugnata, mentre nella sentenza di primo grado è richiamata la “lettera 10.07.1967, depositata da parte resistente a seguito di ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., che la Soprintendente scrisse all’autore dell’opera, presso la Galleria Marconi, per comunicare la conclusione della mostra itinerante e ringraziarlo per il prestito delle sue opere, informando dell’affidamento delle stesse all’incaricato per la riconsegna”.
11.1.4. – La Corte d’appello, dopo aver premesso che la controversia non aveva ad oggetto la proprietà del dipinto, ma soltanto l’esistenza del diritto personale degli eredi di C.C. alla restituzione dell’opera, e che era inammissibile, ai sensi dell’articolo 345 c.p.c., la domanda di usucapione formulata dall’amministrazione appellante solo in grado d’appello, ha ribaltato la decisione osservando:
-) quanto alla lettera del 1967, “che questo ultimo documento sia del tutto irrilevante ai fini decidere, vuoi perché lo stesso …venne spedito al pittore presso una Galleria (la Galleria Odyssia di Roma: n.d.e.) diversa da quella che risulta essere stata la comodante dell’opera di cui si dibatte (la Galleria Marconi: n.d.e.), vuoi perché del titolo dell’opera non è fatta menzione alcuna nella citata lettera a firma Buccarelli, e pertanto, essendo state nella mostra itinerante esposte più opere del pittore D.D. …detto documento nulla documenta in ordine alla titolarità del bene né avvalora la tesi difensiva degli eredi D.D. sotto altro aspetto”;
-) quanto alla lettera del 2012, che, dal momento che “la consegna del dipinto fu effettuata dal pittore alla Galleria Marconi, depositaria dello stesso …soltanto la Galleria stessa aveva titolo a costituire il comodato con la GNAM. Pertanto la configurabilità di un comodato costituito direttamente dal pittore a favore della GNAM confligge con le risultanze probatorie emerse avanti al primo giudice.
Quest’ultimo, sulla scorta della prova documentale, ha correttamente inquadrato (anche se contraddicendosi poi) che il comodato era stato costituito a favore della GNAM dalla Galleria Marconi di Milano, “depositaria” del dipinto per conto dell’Artista”.
La sentenza impugnata ha quindi ulteriormente aggiunto: “Richiedono ulteriori precisazioni le considerazioni degli appellati tese a svilire le risultanze documentali …secondo le quali, sin dalla consegna in comodato, era noto il fatto che l’opera di cui si controverte apparteneva al collezionista di cui si indicavano le sole iniziali “A.U.” non essendo l’opera, come precisa la Galleria Marconi nella nota di trasmissione, perciò stesso, in vendita (cfr. lettera 23.11.65 …). Gli eredi D.D. nella propria memoria di costituzione ribadiscono il concetto, già espresso in prime cure, secondo il quale la indicazione “coll. A.U.” non vada affatto intesa come didascalia relativa alla indicazione di un collezionista che intende restare anonimo, ma, ben possa intendersi come “Collezione dell’Autore” oppure “Artista Unico”. Rileva la Corte come non sia in alcun modo condivisibile tale censura non solo in quanto confliggente con lo stesso contenuto della suddetta nota 23.11.65, ma anche perché, oltre che riferirsi le censure degli eredi D.D. a didascalie o interpretazioni del tutto fantasiose e inusuali (sopra riportate testualmente) dalla documentazione versata in atti dagli appellanti si rileva (catalogo della mostra “aspetti dell’arte Italiana contemporanea” GNAM …) che mentre per l’opera oggetto di contesa si legge testualmente “Proprietà A.U.” nella didascalia dell’opera Vero Amore” l’indicazione è: “proprietà Studio Marconi Milano” mentre nella stessa pagina l’opera n. 52 di Piero Raspi, la didascalia reca indicazione “Proprietà dell’Artista” così come per l’opera n. 63 di Giulio Turcato. Elementi tutti che avvalorano la tesi della palesata ed inequivocabile appartenenza del dipinto “Paesaggio versione anemica 1965″ ad un collezionista che desiderava rimanere anonimo, mentre le opere appartenenti agli autori stessi erano espressamente indicate in catalogo come tali”.
11.1.5. – In breve, il giudice d’appello ha prima escluso che le due lettere possedessero valore confessorio, e che, dunque, comprovassero la consegna del dipinto a titolo di comodato da C.C. alla Galleria Nazionale, e, quindi, ha ulteriormente evidenziato – ma evidentemente ad abundantiam, avendo in precedenza escluso di dover provvedere su una domanda di usucapione – che gli elementi istruttori disponibili inducevano effettivamente a ritenere che il dipinto appartenesse non al suo autore, ma all’ignoto collezionista identificato con le sole iniziali.
11.1.6. – Ora, posto dinanzi ad una dichiarazione che si assume avere natura confessoria, il giudice deve effettuare una duplice operazione: i) in primo luogo deve verificare che la dichiarazione abbia davvero natura di confessione, quale dichiarazione di un fatto sfavorevole al confitente e favorevole all’altra parte; ii) in secondo luogo, una volta che abbia qualificato la dichiarazione come confessoria, è tenuto a riconoscere ad essa efficacia di “piena prova”, come tale non suscettibile di essere valutata nell’ottica del “prudente apprezzamento”.
Quanto al primo momento della menzionata operazione, è principio fermo da epoca remota quello secondo cui non è soggetta a sindacato di legittimità, purché sia immune da errori logici e giuridici, l’interpretazione effettuata dai giudici di merito in ordine alla dichiarazione resa da una parte al fine di stabilire se essa costituisca confessione (Cass. 17 maggio 1974, n. 1427; Cass. 10 gennaio 1972, n. 62; Cass. 20 aprile 1968, n. 1218; Cass. 2 ottobre 1967, n. 2239; Cass. 28 marzo 1966, n. 827), con l’ovvia precisazione che il sindacato motivazionale consentito ad oggi è quello rapportato al c.d. “minimo costituzionale” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).
11.1.7. – Nel caso di specie, il giudice di merito, operando nella prima fase di verifica sopraindicata, ha per l’appunto sottoposto a valutazione critica il contenuto delle dichiarazioni racchiuse nelle due missive poc’anzi menzionate, escludendo che le stesse possedessero natura confessoria, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2730 e 2735, primo periodo, in relazione al secondo comma del precedente articolo 2733 c.c.:
-) quanto alla prima, quella del 1967, la Corte d’appello ha osservato che la dichiarazione non poteva avere natura confessoria, tale da fare piena prova nei confronti del confitente, sia perché essa non era stata indirizzata alla parte, e neppure ad un suo rappresentante, secondo quanto previsto dall’articolo 2735 c.c., essendo stata la missiva in questione materialmente spedita ad un terzo, la Galleria Odyssia, sia perché non menzionava il dipinto oggetto del contendere, in una situazione in cui era pacifico che la Galleria Nazionale avesse ricevuto non quel solo dipinto, ma anche un altro dipinto;
-) quanto alla seconda, quella del 2012, la Corte territoriale ha osservato che il Tribunale ne aveva dato una lettura contraddittoria, avendo per un verso ritenuto, sulla base di essa, che fosse stato C.C. a consegnare il dipinto alla Galleria Nazionale a mezzo della Galleria Marconi, e per altro verso affermato che quest’ultima Galleria Marconi fosse depositaria del dipinto, e dunque avesse la disponibilità dello stesso, di modo che solo la Galleria Marconi, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, poteva aver effettuato la consegna dell’opera alla Galleria Nazionale, con l’ulteriore conseguenza che la dichiarazione menzionata non concerneva, univocamente, un fatto sfavorevole al preteso confitente, e favorevole agli eredi D.D., quale la consegna del quadro da quest’ultimo, C.C., e non dalla Galleria Marconi, alla Galleria Nazionale.
Sgombrato il campo dall’efficacia di piena prova delle due missive, quali dichiarazioni confessorie, come tali dotate di forza di prova legale, la Corte d’appello si è poi soffermata sugli ulteriori elementi istruttori ritenuti rilevanti, pervenendo alla finale conclusione, peraltro, come si è accennato volta all’esclusivo scopo di supportare la pronuncia adottata, di rigetto della domanda per mancanza di prova, che la dicitura concernente la proprietà del dipinto in capo ad A.U. non potesse essere ricondotta all’artista, ma fosse più plausibilmente tale da deporre per l’appartenenza del bene ad un ignoto terzo.
11.1.8. – Ebbene, è ormai superfluo constatare, tenuto conto di quanto si è in precedenza osservato sulla deducibilità in Cassazione del vizio di c.d. “travisamento della prova”, che detta motivazione non ha in realtà nulla a che vedere con un qualcosa che possa somigliare sia pur vagamente ad una simile dispercezione: saremmo qui semmai in presenza, evidentemente, non di un mero errore percettivo del significante, ma di un ben diverso, ipotetico, errore largamente valutativo in ordine alla riconducibilità delle due dichiarazioni al novero delle confessioni. Occorre allora limitarsi a constatare, per i fini del rigetto del motivo, che la Corte d’appello ha sostenuto la propria decisione con motivazione rispettosa del parametro del “minimo costituzionale” giungendo ad escludere che le due lettere possedessero i requisiti per essere ricondotte al campo di applicazione degli articoli 2730, 2733 e 2735 c.c., richiamati nella rubrica del motivo in esame.
11.2. – Il secondo mezzo è infondato.
Si è or ora visto che la motivazione addotta dalla Corte d’appello per escludere che la scrittura del 2012 possedesse valore confessorio rispetta la soglia del “minimo costituzionale”.
11.3. – Il terzo mezzo è infondato.
Non occorre dilungarsi per ribadire che la Corte d’appello non ha stravolto le risultanze processuali, utilizzando informazioni probatorie del tutto diverse ed inconciliabili con quelle contenute nelle note della Galleria Nazionale del 13 dicembre 2012 e del 10 luglio 1967: ha semplicemente esaminato il contenuto delle dichiarazioni, come era del resto suo dovere fare, escludendo motivatamente che esse avessero natura confessoria.
11.4. – Il quarto mezzo è inammissibile, trattandosi di censura versata in fatto e volta ad ottenere il riesame dell’accertamento di merito operato dalla Corte d’appello nel ritenere che le due missive più volte menzionate non avessero natura confessoria, e che gli attori non avessero in fine dei conti provato il fatto costitutivo della domanda.
11.5. – Il quinto mezzo è inammissibile, giacché non consentaneo alla ratio decidendi che sostiene la pronuncia impugnata: la Corte d’appello ha difatti giudicato inammissibile la domanda di usucapione spiegata dall’amministrazione, ed ha svolto le considerazioni di cui si è in precedenza dato conto con riguardo alla proprietà dell’opera, ad abundantiam, e cioè al solo fine del rigetto della domanda attrice per mancanza di prova.
11.6. – Il sesto mezzo è infondato.
Con esso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe nulla per vizio della costituzione del giudice essendo stata pronunciata da un collegio del quale faceva parte un giudice ausiliario di corte d’appello con funzione di relatore.
È però cosa nota che il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa richiamata in rubrica “nella parte in cui non prevede che essa si applichi fino al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria nei tempi contemplati dal citato art. 32 del D.Lgs. n. 116 del 2017, così riconoscendo ad essa – per l’incidenza dei concorrenti valori di rango costituzionale – una temporanea tollerabilità costituzionale, rispetto all’evocato parametro dell’art. 106, primo e secondo comma, Cost.” (Corte cost. n. 41/2021).
Di guisa che, fino al consumarsi di detta scadenza, la partecipazione dei giudici onorari ai collegi di appello è legittima.
12. – Le spese del giudizio di legittimità possono compensarsi, tenuto conto che la decisione è stata resa in sede di composizione di contrasto. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità, dando atto, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 7 novembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2024.