Dott. Nicolò Cecchini – Studio Legale Calvello
Normativa di riferimento:
– art. 54 D. Lgs. 274/2000
– artt. 186 e 187 C.d.S.
Giurisprudenza citata:
– Cass. Pen. Sez. IV, sent. 47276/2012
– Cass. Pen. Sez. IV, sent. 42488/2012
– Cass. Pen. Sez. IV, sent. 6381/2012
– Tribunale di Firenze – Ufficio Gip – sent. 582/2011
– Tribunale di Treviso, sez. distaccata di Montebelluna, sent. 43/2013
– Tribunale di Arezzo sent. 11.01.2013
I primi “vagiti” dell’istituto del Lavoro di Pubblica Utilità si devono ricondurre al decreto legislativo 274/2000, relativo al procedimento penale innanzi al Giudice di Pace ed in particolare all’articolo 54.
Volendo privilegiare la sintesi, si può efficacemente affermare che il lavoro di pubblica utilità è una sanzione che può essere applicata dal giudice solo su richiesta dell’imputato e sostituisce quella della permanenza domiciliare. Essa consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato (cfr. studio gaito & partners, Procedura Penale, I edizione, Itinera, Ipsoa, pag. 798).
Con la legge 120/2010 la disciplina del Lavoro di Pubblica Utilità ha fatto il suo ingresso anche nel Codice della Strada: il comma 9 bis dell’articolo 186 C.d.S. ed il comma 8-bis dell’articolo 187 C.d.S. prevedono infatti che colui, il quale sia stato condannato per guida in stato di ebbrezza, ovvero per guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, possa accedere al beneficio della sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità.
I benefici del Lavoro di Pubblica utilità, in caso di svolgimento positivo dello stesso, sono evidenti anche agli occhi del non giurista:
– estinzione del reato;
– riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente;
– revoca della confisca del veicolo sequestrato.
La durata dell’attività da svolgere con il lavoro di pubblica utilità si calcola invece alla luce del combinato disposto dell’art. 186 comma 9 bis C.d.S. e 54 D.Lgs. 274/2000: il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria effettuata, ragguagliando € 250,00 di pena pecuniaria ad un giorno di lavoro di pubblica utilità e tenuto conto del fatto che un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro (cfr. Tribunale di Arezzo, sent. 11.01.2013).
Non a tutti, però, è concesso l’ingresso al “beneficio” de quo.
La sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità, infatti, diventa affare oltremodo spinoso, qualora ad un ipotetico sig. Tizio, conducente, sia stato accertato lo stato di ebbrezza o di alterazione da stupefacenti dopo la commissione di un incidente stradale.
Addentrandoci nell’analisi del dettato normativo (prenderemo in considerazione, per comodità espositiva, la fattispecie dell’articolo 186 C.d.S., anche se, sulla questione che ci occupa, vi è identità di disciplina con l’articolo 187 C.d.S.), l’incipit del comma 9 bis dell’articolo 186 C.d.s., ictu oculi, non lascerebbe spazio a dubbio alcuno: “Al di fuori dei casi previsti dal comma 2 bis del presente articolo, la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 274/2000 […].”
Il richiamato comma 2 bis dell’articolo 186 C.d.S. disciplina il caso in cui il conducente in stato di ebbrezza provochi un incidente stradale (“se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale…”).
Pertanto dalla lettura in combinato disposto dei due commi si dovrebbe concludere per l’inapplicabilità della sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità (e lo stesso dicasi per l’articolo 187 C.d.S., il cui comma 8 stabilisce: “al di fuori dei casi previsti dal comma 1 bis del presente articolo[…]”).
Non sfugge però che un’esclusione tout court dal lavoro di pubblica utilità possa risultare senz’altro iniqua, nei casi in cui dall’incidente stradale siano derivati solamente danni alle cose e il danno alla circolazione sia stato irrilevante o marginale (in specie se si considera che, qualora il procedimento penale sfoci nell’emissione di un decreto penale di condanna e lo stesso preveda la conversione della pena detentiva in quella pecuniaria, si staglia, il più delle volte, una pena ammontante a diverse migliaia di euro…).
Una parte della giurisprudenza di merito (è il caso della sentenza 582/2011 del GIP del Tribunale di Firenze) ha interpretato la questione, che qui ci occupa, giungendo ad affermare la possibilità di applicare la disciplina del lavoro di pubblica utilità anche in taluni casi di incidenti stradali.
Muovendo dalla disamina della natura giuridica del comma 2 bis del C.d.S. il Giudice fiorentino configura la norma come circostanza aggravante ad effetto speciale, la quale, non applicandosi l’esclusione dal bilanciamento tra circostanze, può soccombere rispetto alle attenuanti e, quindi, anche nei confronti delle attenuanti generiche.
Tracciata la rotta, il giudice naviga verso un’interpretazione dell’inciso “al di fuori dei casi previsti dal comma 2 bis del presente articolo”, contenuto nel comma 9 bis dell’articolo 186 C.d.S. più aderente al principio della responsabilità personale dell’imputato in luogo del principio di responsabilità oggettiva, che sembra “velare” la dizione della norma.
Afferma il GIP: «ritenere che “il caso descritto dal comma 2 bis” sia l’accadimento del sinistro stradale in sé considerato, rende la norma, da una parte particolarmente punitiva (si ricordi che la possibilità di accedere al lavoro di pubblica utilità è prevista anche per le ipotesi meno gravi dell’articolo 186 comma 2 lettere a) e b) Codice della Strada), dall’altra illogica, perché si trattano nello stesso modo eventi di gravità del tutto differenti tra loro (un lievissimo tamponamento ed un disastro autostradale con numerose vittime), prescindendo del tutto dalla valutazione complessiva della colpa e personalità del soggetto (che, appunto, può avere per colpa provocato un incidente, ma al quale possono essere riconosciuti altri “meriti” che bilanciano la valutazione complessiva della gravità del fatto».
Pertanto secondo il giudice fiorentino, nel caso in cui non sussistano aumenti di pena per l’aggravante del comma 2 bis dell’articolo 186 C.d.S., in quanto sub valente rispetto alle attenuanti generiche, sarebbe possibile, per l’imputato, accedere al lavoro di pubblica utilità.
Tale interpretazione, tuttavia, è rimasta minoritaria, per due ordini di motivazioni.
La prima: secondo la Giurisprudenza prevalente della Corte di Cassazione il concetto di “incidente stradale” rilevante ai fini della configurazione della summenzionata circostanza aggravante racchiude qualunque situazione che esorbiti dalla normale marcia dei veicoli in area aperta alla pubblica circolazione, con pericolo per l’incolumità altrui o dello stesso conducente; in tal senso, è “incidente” anche la mera fuoriuscita del veicolo dalla sede stradale, pur senza coinvolgimento di terze persone (cfr. Cass. Pen. Sez. IV sent. 47276/2012 e Cass. Pen. Sez. IV sent. 42488/2012).
Inutile, pertanto, per l’imputato, far leva su una definizione restrittiva della locuzione “incidente stradale”, poiché la sentenza n. 6381/2012, della Corte di Cassazione, Sez. IV, ha stabilito che: «il concetto di incidente stradale (che già compare nell’articolo 11 C.d.S. a proposito dell’attribuzione dell’accertamento agli organi di polizia stradale) richiamato, ai fini dell’integrazione dell’aggravante prevista dall’articolo 186 C.d.S., comma 2 bis è ben più ampio di quelli di investimento e di collisione tra autoveicoli, che vi sono, in ogni caso, ricompresi: infatti, esso non implica necessariamente la produzione di danni a cose proprie o altrui o lo scontro con altri veicoli o comunque il coinvolgimento di terze persone con danni alle stesse, bensì qualunque situazione che esorbiti dalla normale marcia del veicolo in area aperta alla pubblica circolazione con pericolo per l’incolumità altrui e dello stesso conducente.
Si verte, invero, nel campo della “sicurezza stradale”, la quale esige che anche quelle condotte di guida che pongano a mero rischio l’incolumità pubblica (ivi compresa quella dello stesso guidatore) siano valutate con particolare severità e conseguentemente sanzionate più gravemente».
La seconda attiene alla disciplina del bilanciamento tra circostanze, nonchè all’esegesi dell’inciso “al di fuori dei casi previsti dal comma 2 bis del presente articolo”, contenuto nel comma 9 bis dell’articolo 186 C.d.S.
Una recente sentenza, n. 43/2013 del Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna ha stabilito che nel caso in cui ricorra l’aggravante dell’ “avere provocato un incidente stradale” prevista dal comma 2 bis dell’art. 186 del codice della strada non è possibile la sostituzione della pena inflitta con quella del lavoro di pubblica utilità e ciò anche nel caso in cui tale aggravante sia stata ritenuta subvalente rispetto a circostanze attenuanti eventualmente riconosciute; infatti, dalla stessa formulazione della clausola di esclusione prevista dal comma 9 bis dell’art. 186 c.d.s. (“al di fuori dei casi previsti dal comma 2 bis del presente articolo”), a differenza della pronuncia del Gip di Firenze, il giudice trevigiano giunge a ritenere che “la legge ricollega l’effetto ostativo non alla concreta applicazione della aggravante, ma al ricorrere, quoad titulum, della fattispecie aggravata, sganciata dagli esiti di un eventuale giudizio di comparazione che, per sua natura, non fa venire meno la sussistenza della circostanza subvalente, ma semplicemente la paralizza e la rende non applicata solo quoad poenam”.
Inoltre, sempre secondo il Tribunale trevigiano: «è evidente che il legislatore facendo riferimento “ai casi previsti dal comma 2 bis” ha collegato l’effetto preclusivo non all’applicazione, nei termini sopra precisati, dell’aggravante (non ha detto quando è “applicata” l’aggravante di cui al comma 2 bis), ma al ricorrere della fattispecie della aggravante; in altre parole il legislatore ha detto che quando sussiste la fattispecie aggravata il condannato non può accedere al lavoro di pubblica utilità, ancorando la preclusione alla ontologica sussistenza del fatto-reato come circostanziato dalla aggravante, e quindi alla obiettiva gravità astratta del reato proprio perché aggravato, prescindendo dal fatto che in concreto l’aggravante non incida sul trattamento sanzionatorio perché, per esempio, ritenuta subvalente rispetto a riconosciute attenuanti».
Il che, tradotto, significa che l’aggravante del comma 2 bis dell’articolo 186 può non calcolarsi (in alcuni casi) nella determinazione quantitativa della pena, ma preclude comunque la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità.
Una breve riflessione in chiusura.
Recentissima è l’approvazione, il 26.06.2013, in Consiglio dei Ministri, del Decreto Legge c.d. “Svuota Carceri”, nel quale si prevede che, per diminuire i flussi in entrata negli istituti penitenziari, venga estesa la possibilità per il giudice di ricorrere, al momento della condanna, ad una soluzione alternativa al carcere, costituita proprio dal lavoro di pubblica utilità.
Dalla Relazione ministeriale si apprende: «In particolare, con la lettera a) è aggiunto il comma 4-ter nell’articolo 21 O.P [rubricato “lavoro all’esterno”, n.d.r.], allo scopo di consentire ai detenuti e agli internati la partecipazione a titolo volontario e gratuito a progetti di pubblica utilità presso lo Stato e gli enti locali o presso enti ed organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. In questo caso, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste nell’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274, che regola il lavoro di pubblica utilità nel processo davanti il giudice di pace».
Particolarmente interessante è invece l’articolo 3 del Decreto Legge, che prevede altresì l’inserimento nell’articolo 73 del D.P.R. 309/1990 di un nuovo comma 5 ter, al fine di consentire al condannato tossicodipendente o assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope di essere ammesso al lavoro di pubblica utilità, salvo che lo stesso non abbia commesso un delitto, tra quelli previsti nell’articolo 407, comma 2 lett. a) c.p.p.
Stabilisce il nuovo comma: «5-ter. La disposizione di cui al comma 5-bis si applica anche nell’ipotesi di altri reati commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, salvo che si tratti di quelli previsti dall’ articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.»
Il comma 5 bis, che a sua volta richiama il comma 5 dell’articolo 73 D.P.R. 309/90 stabilisce che, limitatamente ai reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, qualora i fatti contestati siano di lieve entità e commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, sempre che non debba disporre la sospensione condizionale della pena, possa applicare la pena del lavoro di pubblica utilità ex art. 54 D. Lgs. 274/2000.
La novella supera il rapporto “persona tossicodipendente – reato ex art. 73 D.P.R. 309/90 – lavoro di pubblica utilità”, perché lo estende anche ad altri reati (sia delitti che contravvenzioni), purchè gli stessi non siano annoverati nella disposizione dell’art. 407 comma 2, lettera a) del codice di procedura penale.
Nel catalogo di cui all’art. 407 c.p.p. appena richiamato non sono presenti i reati di cui agli articoli 186 e 187 del Codice della Strada.
Si potrebbe forse giungere al paradosso per cui un soggetto tossicodipendente che commette il reato di guida in stato di ebbrezza con annesso incidente stradale, possa (alla luce del comma 5 ter dell’articolo 73 D.P.R. 309/90), in luogo della sospensione condizionale della pena, essere condannato al lavoro di pubblica utilità; mentre il “beneficio” del lavoro di pubblica utilità rimarrebbe sostanzialmente precluso al soggetto non tossicodipendente, a causa dello sbarramento del comma 9 bis dell’articolo 186 C.d.S.…
Anche alla luce di tali innovazioni normative non appare fuori luogo sostenere che la barriera del comma 9 bis dell’articolo 186 C.d.S. e quella del comma 8 bis dell’articolo 187 C.d.S. possano essere mitigate.
Compito, quest’ultimo, da demandare al giudice (segnalo il provvedimento del Giudice Dott.ssa Cameran, che sul punto, in data 02.10.2012, aveva così ragionato: « L’interpretazione della riserva “al di fuori dei casi previsti dal comma 2 bis del presente articolo”, presente all’inizio del comma 9 bis della stessa norma, poi, deve essere effettuata con riferimento al principio della responsabilità personale del soggetto e non nel senso di una responsabilità oggettiva. Ritenere che “il caso descritto dal comma 2 bis” sia l’accadimento del sinistro stradale in sé considerato, infatti, renderebbe la norma, da una parte particolarmente punitiva (si ricordi che la possibilità di accedere al lavoro di pubblica utilità è prevista anche per le ipotesi meno gravi dell’articolo 186 comma 2 lettere A e B Codice della Strada, dall’altra illogica, perché si tratterebbero nello stesso modo eventi di gravità del tutto diversa (quali una fuoriuscita autonoma dalla sede stradale e un disastro autostradale con numerose vittime), prescindendo del tutto dalla valutazione complessiva della colpa e personalità del soggetto, il quale, appunto, può avere per colpa provocato un incidente, ma al quale possono essere riconosciuti altri “meriti” che bilanciano la valutazione complessiva della gravità del fatto»), oppure alla Corte Costituzionale, al fine di ancorare, in concreto, il diniego al lavoro di pubblica utilità ai soli incidenti stradali con danni alle persone o con gravi e rilevanti danni materiali o disagi alla circolazione stradale e di rispettare il principio di cui all’articolo 3 della Costituzione.
(13.07.2013)