Licenziamento e discriminazione: la Cassazione chiarisce i limiti della riorganizzazione aziendale
LA VICENDA
La vicenda trae origine dalla contestazione di una lavoratrice (dirigente) che riteneva di essere stata licenziata per motivi discriminatori legati alla sua disabilità. La Corte d’Appello di Roma, pur riconoscendo la legittimità del licenziamento per esigenze di riorganizzazione aziendale, aveva condannato il datore di lavoro al pagamento di un risarcimento per danno biologico, riconoscendo che la lavoratrice aveva subito un comportamento vessatorio e stressante.
L’INTERVENTO DELLA CASSAZIONE
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 460 del 9 gennaio 2025, annullava il licenziamento della dirigente disabile per discriminatorietà, accertando la violazione della normativa antidiscriminatoria. L’azienda aveva giustificato il licenziamento con una riorganizzazione aziendale, redistribuendo le mansioni della dirigente tra altri lavoratori. Tuttavia, la Cassazione riteneva questa motivazione insufficiente a escludere la natura discriminatoria del licenziamento. La discriminatorietà di un licenziamento non viene meno, infatti, anche se il datore di lavoro fornisce una motivazione organizzativa apparentemente legittima. Questo principio è consolidato nella giurisprudenza, come dimostrano sentenze precedenti (es. Cass. civ. n. 6575/2016).
Questa pronuncia si pone come un riferimento giuridico importante per valutare situazioni in cui un licenziamento può essere giustificato da esigenze aziendali, ma al contempo rischiare di violare i diritti dei lavoratori con disabilità. La decisione della Cassazione rafforza l’orientamento volto a contrastare i licenziamenti discriminatori, ma ribadisce anche che un recesso per riorganizzazione aziendale può essere legittimo, purché sia realmente giustificato.
Ne deriva l’importanza di valutare caso per caso ogni licenziamento, considerando tutte le circostanze concrete, per garantire un equilibrio tra le esigenze dell’impresa e i diritti dei lavoratori.
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pur fondato su una reale esigenza aziendale e sulla soppressione del posto di lavoro, non esclude automaticamente la sua natura discriminatoria qualora emergano elementi che facciano ritenere che la decisione sia stata influenzata dalla disabilità del lavoratore. In materia di licenziamento discriminatorio, spetta al datore di lavoro dimostrare l’assenza di discriminazione una volta che il lavoratore abbia fornito elementi idonei a rendere plausibile la violazione del principio di parità di trattamento. La prolungata malattia è equiparabile alla disabilità ai sensi della direttiva 2000/78/CE, e il licenziamento basato su tale condizione è vietato. Inoltre, una condotta datoriale vessatoria, anche indipendentemente dal licenziamento, può dar luogo a responsabilità risarcitoria per danno biologico.
L’ORDINANZA
Cassazione civile, Sez. lavoro, Ordinanza del 09/01/2025, n. 460
(Omissis)
Svolgimento del processo
1.- La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza in atti, in parziale riforma della impugnata sentenza, ha accolto solo parzialmente l’appello principale proposta da A.A., già dirigente della B.B. E Partners Spa, ed ha condannato la datrice di lavoro a corrispondere alla lavoratrice la somma di Euro 52.446 a titolo di risarcimento del danno biologico, oltre accessori; ha accolto in parte l’appello incidentale proposto da B.B. E Partners S.p.A e per l’effetto ha rigettato l’originaria domanda di riconoscimento di differenze retributive eccetto che per gli aumenti retributivi contrattuali relativi agli anni 2017 e 2018 e alla loro incidenza sugli istituti retributivi e sul TFR. Ha condannato inoltre l’appellante principale a restituire alla B.B. E Partners S.p.A la differenza tra la somma di Euro 34.345,36 versata in esecuzione della sentenza di primo grado e gli importi di cui alle voci riconosciute ed indicate sub a).
2.- Per quanto ancora d’interesse in questa sede, in relazione al licenziamento della lavoratrice, la Corte d’Appello ha confermato il rigetto delle domande svolte in giudizio dalla ricorrente ed ha riconosciuto la giustificatezza del licenziamento per riorganizzazione aziendale e soppressione del posto di lavoro, atteso che vi era stata una riassegnazione tra i colleghi dei clienti seguiti dalla A.A.; nessuno aveva sostituito la A.A. nella posizione in cui si trovava, i suoi compiti erano stati accentrati nelle mani del suo superiore o dei colleghi che a lui rispondevano. I testi avevano anche riferito della contrazione dell’attività e della clientela.
Le nuove assunzioni non rilevavano ai fini della giustificatezza del recesso posto che si trattava di posizioni di grado inferiore assolutamente non comparabili con quella rivestita dalla A.A. ed affidate a stagiste ovvero di collaborazioni occasionali. Inoltre andava considerato che al licenziamento del dirigente non si applicava l’obbligo di repechage, sicché ne conseguiva la irrilevanza di una possibile fungibilità della posizione della A.A. con quella di colleghi di pari carica o dell’eventuale riallocazione in altro settore.
3.- Sulla scorta di tali ragioni, a seguito dell’accertamento dell’esistenza di una ragione di natura organizzativa posta a base dell’intimato licenziamento, la Corte territoriale ha escluso che il licenziamento potesse essere considerato di natura ritorsiva con riferimento all’assenza per malattia, rigettando sul punto il gravame della ricorrente.
4.- Quanto al dedotto licenziamento discriminatorio per ragioni di salute e disabilità, la Corte d’Appello ha riconosciuto come infondate le censure sollevate dalla lavoratrice appellante; pur sostenendo, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, che la sussistenza di un valido motivo organizzativo non esclude che il licenziamento abbia natura discriminatoria, potendo essere tale anche un licenziamento assistito da una legittima ragione giustificativa; ed inoltre riconoscendo che la lavoratrice appartenesse ad una categoria protetta tipizzata, in quanto portatrice di handicap e che la Suprema Corte aveva chiarito che la malattia prolungata fosse equiparabile alla disabilità e che il recesso basato sull’handicap del dipendente fosse vietato dalla direttiva 78/2000/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione.
La Corte d’Appello ha ribadito in proposito la ripartizione degli oneri tra le parti, per come regolata dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 23338/2018); ha richiamato la nozione di discriminazione diretta e di quella indiretta contenute nelle Direttive europee indicate dall’appellante ed ha affermato che “esaminando le ragioni della discriminazione addotta dalla lavoratrice, non risultano allegate circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l’intimato licenziamento sotto entrambi i profili”.
“Invero quanto al trattamento deteriore asseritamente subito rispetto alle colleghe C.C. e D.D. in merito all’utilizzo, loro consentito, del part-time, non risulta in primo luogo che la A.A. abbia mai richiesto di ridurre il proprio orario ricevendo un rifiuto, ed inoltre trattasi di lavoratrici madri, a loro volta portatrici di altro e diverso fattore protetto; quanto al lavoro da remoto, asseritamente consentito alle colleghe E.E. e F.F., basti osservare che la prima non riveste un ruolo apicale, e che dell’altra, egualmente disabile, non è stata dedotta la qualifica e comunque risulta che la stessa sia stata egualmente licenziata. Il B.B. peraltro spiegava alla ricorrente che l’homework non poteva esserle accordato non essendo compatibile con le mansioni dirigenziali a lei assegnate.”
“Mai ha sostenuto la ricorrente che un trattamento più favorevole, nei medesimi termini riferiti alle predette colleghe, sia stato riservato a dipendenti con la sua stessa posizione apicale. Pertanto, dai predetti atti organizzativi del datore di lavoro con riguardo ai dipendenti indicati a raffronto dalla ricorrente non può inferirsi che licenziamento de quo sia dipeso dalla specifica posizione personale di disabilità nella quale la A.A. si trovava.
Nemmeno risultava che ella avesse “ricevuto dal B.B., con comportamenti apparentemente neutri, un trattamento discriminatorio indiretto, ossia non rispettoso della sua posizione di svantaggio con effetto discriminante rispetto alla platea dei sani, ossia indipendentemente da un confronto con lavoratori comparabili, attesa la rilevanza dell’elemento forte del motivo riorganizzativo, come visto accertato.”
5.- Quanto alla domanda di mobbing avanzata dalla lavoratrice, la Corte d’Appello ha osservato che il fatto che il B.B. non avesse licenziato la A.A. in ragione del suo handicap, non escludeva che la condotta del datore non avesse comunque violato gli obblighi di protezione cui era contrattualmente tenuto nei confronti dell’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente alla stregua dell’articolo 2087 c.c. In particolare, secondo la Corte, il contenuto lesivo, quantomeno stressante, delle numerose e-mails a lei inviate dal B.B. costituiva idonea deduzione del fatto generatore del danno risarcibile, indipendentemente dal mobbing e dalla sussistenza di un unico disegno persecutorio finalizzato all’estromissione del dipendente, e costituiva in sé fonte di disagio psicologico e stress lavorativo da risarcire nell’importo quantificabile in Euro 52.446,00 secondo le risultanze della c.t.u. e sulla base di una percentuale del 20% di danno biologico attribuita al disturbo psichiatrico, secondo la stima operata dalla Corte.
6.- Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione A.A. con sei motivi ai quali ha resistito B.B. and Partners Spa con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380-bis 1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2 D.Lgs. n. 216/2003 e dell’articolo 1345 c.c. in relazione all’articolo 360 n. 3 c.p.c. avendo la Corte d’Appello, con riguardo alla natura discriminatoria del licenziamento, violato le norme indicate affermando erroneamente che l’accertata sussistenza di una motivazione organizzativa del licenziamento precluda ex se la sua natura discriminatoria. Ciò in particolare laddove la Corte ha sostenuto: “Nemmeno risulta che ella abbia ricevuto dal B.B., con comportamenti apparentemente neutri, un trattamento discriminatorio indiretto, ossia non rispettoso della sua posizione di svantaggio con effetto discriminante rispetto alla platea dei sani, ossia indipendentemente da un confronto con lavoratori comparabili, attesa la rilevanza dell’elemento forte del motivo riorganizzativo, come visto accertato.”
2.- Col secondo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2 e 3 del decreto legislativo n. 216/2003 in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c. avendo la Corte d’Appello operato l’accertamento se il licenziamento perfezionasse una discriminazione diretta a danno della ricorrente sulla base di una nozione di discriminazione per handicap del tutto incoerente con quella adottata dagli articoli 2 e 3 decreto legislativo n. 216/2003; avendo la sentenza d’appello erroneamente ritenuto sia che l’atto discriminatorio non possa consistere nell’atto di licenziamento in sé; sia che la discriminazione debba necessariamente emergere dalla comparazione delle altre condizioni di lavoro (part time, lavoro da remoto, ecc.), applicate dal datore di lavoro in modo o in misura sfavorevole al lavoratore che risponde al fattore discriminante rispetto agli altri comparabili perché rispondenti esattamente a tutti i medesimi i caratteri del primo, fatti eccezione per il fattore di rischio.
3.- Con il terzo motivo si afferma la violazione e falsa applicazione dell’articolo 4 decreto legislativo 216/2003, dell’articolo 28 decreto legislativo 150/2011, in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c., per avere la sentenza d’appello affermato che la lavoratrice non avesse allegato circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l’intimato licenziamento, in tal modo totalmente disattendendo la disciplina di legge e finendo per gravare integralmente la ricorrente dell’onere di offrire la prova piena della discriminatorietà del licenziamento laddove l’articolo 4 cit. prevede, invece, che la parte che agisce in giudizio lamentando di aver subito una discriminazione deve offrire elementi diretti non già ad offrire la prova piena ma a far ritenere plausibile che la condotta tenuta dalla controparte sia scaturita dal fattore di rischio cui è esposto.
4.- Col quarto motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2 e 5 della legge n. 604/66, articolo 18, comma 1 della legge n. 300/70, articolo 3 della legge n. 108/90 in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c. per avere la Corte d’Appello affermato che il dato forte che precluderebbe di qualificare il licenziamento sia come discriminatorio, sia come ritorsivo, sarebbe stato la sussistenza di una genuina motivazione economica e organizzativa del licenziamento; la Corte si era però limitata a rilevare che era intervenuta la soppressione della posizione di lavoro, la redistribuzione delle mansioni, nonché la mancata sostituzione della lavoratrice ritenendosi così sollevata dal compiere l’accertamento non solo circa la veridicità delle motivazioni addotte dalla società per giustificare la soppressione della posizione di lavoro, ma anche della denunciata pretestuosità di queste per giungere all’espulsione di una dirigente non più gradita per la sopravvenuta disabilità.
5.- Con il quinto motivo si sostiene la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2 e 5 della legge n. 604 del 66, nonché dell’articolo 18 legge n. 300/70, articolo 3 legge n. 108/1990 in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c., atteso che la società convenuta aveva intimato il licenziamento ponendo a motivo della propria determinazione la soppressione della posizione lavorativa della ricorrente e nelle proprie difese successive aveva poi specificato che tale soppressione si sarebbe resa necessaria per far fronte ad una rilevante contrazione dei clienti, delle attività e conseguentemente del fatturato della sede di Roma; mentre la Corte d’Appello si era invece totalmente astenuta dal valutare la rilevanza del motivo successivamente addotto dalla datrice di lavoro nelle proprie difese in giudizio ai fini della doverosa indagine circa la pretestuosità o meno della soluzione organizzativa.
6.- Con il sesto motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2 e 3 decreto legislativo n. 216/2003 in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c. per non avere la Corte d’Appello qualificato come atti di discriminazione in ragione dell’handicap anche le condotte vessatorie commesse ai danni della lavoratrice durante il periodo della malattia e della riabilitazione sino al momento del licenziamento.
7.- Il primo, il secondo, il terzo ed il sesto motivo possono essere esaminati congiuntamente per motivi di connessione logico giuridica. Essi sono fondati.
8.1.- In fatto è pacifico nel giudizio che la lavoratrice ricorrente abbia subito nel corso del rapporto di lavoro una grave ed invalidante malattia con intervento operatorio, in seguito al quale le era stato riconosciuto l’handicap grave ai sensi dell’art. 3 della legge n. 104/1992; è inoltre pacifico che abbia pure subito un incidente stradale con frattura del calcagno, rimanendo di conseguenza assente dal lavoro per il periodo di tempo comprovato in atti. Dopo un mese dalla ripresa del servizio (e dopo solo 5 giorni dall’attribuzione di un incarico a lungo termine) il 19 giugno 2018 la lavoratrice è stata licenziata per soppressione del posto di lavoro; a tale giustificazione nel corso del giudizio è stata aggiunta quella della riduzione di attività e di clientela.
8.2. In diritto risulta altrettanto indiscusso nella causa che lo stato di salute della ricorrente integrasse la nozione eurounitaria di disabilità di cui alla direttiva 2000/78/Ce e rientrasse nell’alveo del D.Lgs. n. 216/2003 attuativo, diretto a garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
8.3. Dall’art. 2 lett. a) dello stesso D.Lgs. n. 216/2003 si ricava la nozione di discriminazione diretta che, ai fini che qui rilevano, deve ritenersi esistente quando in ragione dell’handicap una persona è stata trattata meno favorevolmente di quanto sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; mentre secondo l’art.2 lett. b) la discriminazione è indiretta se il licenziamento, apparentemente neutrale, abbia messo la persona disabile in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone.
9.- Nella nozione di discriminazione per handicap, di cui qui si discute, è insito quindi il trattamento pregiudizievole posto in essere da un datore di lavoro verso un lavoratore in ragione del fattore di rischio di cui egli sia portatore ed il concetto di discriminazione comporta la lesione del principio di parità affermato dall’art. 1 del D.Lgs. 276/2003, perché determina sempre una differenza fra il trattamento svantaggioso che è stato riservato al lavoratore ed il trattamento che gli sarebbe stato riservato se la sua qualità personale, considerata dalla legge come un fattore discriminatorio, non avesse inciso oggettivamente sulla scelta sottesa all’atto datoriale.
10.- L’art. 3 del D.Lgs. n. 216/2003 recita: ” Il principio di parità di trattamento è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:…b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento”.
11.- L’art. 2 D.Lgs. n. 216/2003 prevede che costituiscano atti discriminatori anche le molestie ovvero i comportamenti indesiderati commessi per lo stesso fattore della disabilità, c he in questa causa viene in rilievo.
12.- Tutto ciò premesso, il primo motivo di ricorso va ritenuto fondato perché la Corte di appello ha in sostanza affermato che il licenziamento non potesse essere discriminatorio in ragione dell’esistenza dell’elemento forte del motivo riorganizzativo accertato nel giudizio.
Tale tesi si pone in contrasto con la normativa indicata e con la giurisprudenza consolidata dalla quale risulta invece che il licenziamento possa essere, direttamente o indirettamente, discriminatorio anche quando concorra una ragione legittima, come il motivo economico.
In questi termini infatti si esprime con continuità questa Corte a partire dalla sentenza n. 6575 del 05/04/2016 nella quale si è affermato: “La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della L. n. 604 del 1966, l’art. 15 st.lav. e l’art. 3 della L. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico”. Tale orientamento di legittimità si è successivamente consolidato e nello stesso senso si sono espresse Cass. n. 28453/18 e n. 9665/2019 le quali hanno ribadito che, a differenza del licenziamento per motivo ritorsivo, la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo. Da ultimo in questi termini si è espressa altresì Cass. n. 2414/22 e Cass. Data pub 13934/24.
13.- È inoltre fondato il secondo motivo di ricorso, avendo la Corte d’Appello violato l’art. 3 del D.Lgs. n. 216/2003 il quale, come si è visto sopra, individua come area di riferimento su cui misurare la violazione del principio di parità anche l’atto di licenziamento; laddove, come risulta dallo storico della lite, la Corte territoriale per negare la discriminazione ha considerato soltanto le condizioni di lavoro (il part time e il lavoro da remoto).
14.- Sul punto la Corte d’Appello ha quindi omesso di considerare le allegazioni della lavoratrice sul pregiudizio derivante dal licenziamento in sé e per sé in quanto correlato alla sua disabilità ed ha errato ad affermare: “Mai ha sostenuto la ricorrente che un trattamento più favorevole nei medesimi termini riferiti alle predette colleghe, sia stato riservato a dipendenti con la sua stessa posizione apicale”; facendo però riferimento alle condizioni di lavoro, mentre avrebbe dovuto prendere in considerazione l’atto espulsivo in sé e per sé ed operare la dovuta comparazione riguardo al licenziamento.
15.- Non solo; la lavoratrice aveva pure dedotto in proposito che il licenziamento adottato nei suoi confronti fosse di per sé un atto discriminatorio, sia perché adottato in ragione della sua disabilità; sia perché la sua sopravvenuta disabilità aveva fatto cadere la scelta del manager da licenziare proprio su di lei (tra le diverse posizioni di lavoro interscambiabili): la ricorrente era l’unica disabile tra i manager aziendali ed è stata l’unica licenziata tra questi.
Su ciò non è stata addotta nessuna giustificazione plausibile da parte del datore di lavoro onerato della prova ovvero le circostanze inequivoche idonee ad escludere la natura discriminatoria del recesso. Né risulta operata alcuna valutazione da parte dei giudici di merito; i quali, come si è detto, hanno fatto riferimento ad altro.
Pertanto, se si esclude la disabilità, non si saprebbe nemmeno perché sia stata scelta come manager da licenziare proprio la ricorrente.
16.- Inoltre, nemmeno è corretta l’affermazione della Corte territoriale secondo cui ” non risultano allegate circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l’intimato licenziamento sotto entrambi i profili”.
Tali allegazioni, come risulta dal contenuto nel ricorso, invece esistevano ed erano indicative del profilo discriminatorio dell’atto, essendo stati addotti: a) l’esistenza comprovata del fattore di rischio costituito dall’handicap grave ; b) l’atto in sé pregiudizievole costituito dal licenziamento; c) la mancanza di qualsiasi elemento giustificativo in ordine alla scelta di comminare il licenziamento proprio alla ricorrente, d) la comprovata esistenza di concomitanti atti indesiderati commessi per disabilità e qualificati come discriminatori per legge, e) l’esistenza di significativi argomenti a carattere statistico avendo la lavoratrice allegato di essere l’unica dirigente disabile e di essere stata l’unica licenziata rispetto ad altri preferiti.
17.- L’errore di giudizio della Corte – sulla mancata valutazione della tesi formulata dalla ricorrente in termini di interscambiabilità con altri senior manager (sia quadri sia dirigenti) – risulta anche da un’altra considerazione: laddove essa ha ritenuto questa ultima allegazione, formulata ai fini della disparità di trattamento, una rivendicazione dell’insussistente diritto del dirigente, in quanto tale, al repechage arrivando a sostenere, appunto, “l’irrilevanza della fungibilità della posizione della A.A. con quella dei colleghi di pari carica o della eventuale riallocazione di un altro settore”.
18.- Mentre la ricorrente lamentava qui non la mera illegittimità del licenziamento per la mancata prova della impossibilità di una sua differente ricollocazione lavorativa, bensì la disparità di trattamento e la discriminatorietà originaria dell’atto di licenziamento.
19.- Ed ancora; è pure comprovato in giudizio che il datore di lavoro abbia messo in atto una serie reiterata di condotte illecite, stressanti, ansiogene nei confronti della lavoratrice che risultano commesse in diretta correlazione con le sue assenze dal lavoro dovute alla disabilità.
Scrive sul punto la stessa Corte di appello: “Venendo al contenuto delle e-mail emerge dalle stesse che il B.B., pur in mancanza di un intento vessatorio, ha sicuramente esorbitato da un legittimo esercizio del proprio potere di controllo sulle assenze della dipendente, facendola bersaglio di una serie continua e pressante di solleciti alla ripresa dell’attività, di insistenti richieste di notizie sui possibili tempi di recupero, finanche di puntuali suggerimenti medici sulle modalità dallo stesso ritenute più consone alla gestione delle terapie riabilitative, operando pure sgradevoli quanto inopinati confronti con le condotte tenute da colleghi colpiti da patologie simili, così da fiaccare la tenuta psicologica di una lavoratrice già provata dall’insorgere di una grave patologia: condotta che non può ricondursi nell’alveo della mera dinamica relazionale connessa al rapporto di lavoro è legata, come affermato dal primo giudice alle sole difficoltà indotte dall’assenza prolungata di una dipendente composizione apicale”.
20.- Per tali comportamenti vessatori la Corte d’Appello ha riconosciuto alla lavoratrice, nella stessa sentenza, un risarcimento del danno pari a Euro 52.446.
21.- Va ora considerato che secondo l’art. 2 D.Lgs. 216/2003 nella nozione di discriminazione rilevano anche le molestie commesse per motivi legati alla disabilità che la norma parifica agli atti discriminatori: “Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”.
22.- Ciononostante la Corte di merito non ha valutato, né valorizzato ai fini della natura illecita del licenziamento, la presenza di questi veri e propri atti di discriminazione accertati in giudizio, commessi subito dopo la comparsa della malattia e fino a poco tempo prima del licenziamento, intimato all’esito dell’invio di tali emails; ed ha operato quindi una rigida cesura tra l’uno e l’altro comportamento che non trova però nessuna spiegazione logica nella sentenza impugnata.
23.- Da quanto appena rilevato risulta pure la fondatezza evidente del terzo motivo di ricorso formulato in relazione al tema dell’onere di allegazione e prova e della regola di giudizio da osservare nell’ambito del giudizio sull’atto discriminatorio. La Corte d’Appello, infatti, per quanto riguarda la valutazione del licenziamento non ha compiuto nessuna verifica comparativa secondo quanto richiesto dalla legge. Si è limitata semplicemente a sostenere che esistesse una ragione legittima di licenziamento giustificato. Non ha valutato come lo stesso atto impattasse dal punto di vista dell’allegata discriminazione per disabilità posto che era il datore di lavoro – non certo la lavoratrice – a dover dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, una volta
acquisiti in giudizio elementi probatori, rilevanti e significativi, che andavano, oggettivamente, nella opposta direzione. Numero di raccolta Ha pure violato il criterio di alleggerimento della prova stabilito dall’ordinamento avendo spostato tutto l’onere di allegazione e prova a carico della lavoratrice, ritenendo che non avesse allegato gli elementi atti a dimostrare la discriminazione, laddove invece nemmeno è richiesto al lavoratore di allegare e provare la discriminazione, bensì di fornire elementi di fatto, dai quali si possa desumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori; mentre è il datore di lavoro convenuto a dover dimostrare che il fatto non esista ovvero le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione (Cass. sentenza n. 1 del 02/01/2020). Il punto 4 dell’art. 28 del D.Lgs. 150/2011, stabilisce in proposito che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata”.
La Corte non ha utilizzato neppure la regola di giudizio speciale desumibile dalla norma appena citata su cui questa Corte (con sentenza n. 9870 del 28/03/2022) ha affermato: “in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006, l’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 150 del 2011 (disposizione speciale rispetto all’art. 2729 c.c.) realizza un’agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell’onere della prova: l’attore deve fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l’esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; il rischio della permanenza dell’incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l’insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere.”
24.- Per le ragioni esposte il primo, il secondo, il terzo ed il sesto motivo, devono essere accolti; i motivi quarto e quinto, relativi all’effettiva esistenza del motivo economico posto alla base del licenziamento, devono ritenersi assorbiti alla luce della disciplina del D.Lgs. n. 216/2003 cit. e delle considerazioni svolte in proposito.
25.- Dell’impugnata sentenza s’impone, pertanto, la cassazione in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione di quanto in motivazione specificato con riferimento al licenziamento discriminatorio ed alla sua nullità in base alla normativa di legge.
26.- Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, il secondo, il terzo ed il sesto motivo, assorbito il quarto ed il quinto; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale del 5 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2025.