Locazioni ad uso commerciale – Inerzia del locatore nelll’escutere il conduttore – Affidamento nella remissione del debito – Improvvisa richiesta di integrale pagamento – Estizione del diritto per condotta abusiva e lesiva del principio di buona fede – Esclusione – Ragioni
IL FATTO (in breve)
Il ricorrente sostieneva che, nel chiedere il pagamento di 52 canoni di locazione senza aver mai chiesto prima nulla, la società locatrice avrebbe violato i canoni di correttezza e buona fede, incorrendo in un abuso del diritto. Lamentava, dunque, che tale abuso non era stato rilevato dalla Corte di merito, la quale, nel rigettare il motivo di gravame da lui formulato, aveva ritenuto, in generale, che il ritardo nell’azionare un credito non avesse concretizzato di per sé alcun abuso o illecito rilevando, in particolare, che, nella fattispecie, l’inerzia della proprietaria-locatrice, quantunque non comune, trovava tuttavia giustificazione nel pignoramento immobiliare subìto e nello stato di malattia di uno dei soci. Il ricorrente a sostegno della doglianza invocava anche l’applicazione di una precedente sentenza della Cassazione (Cass. 16743/21) secondo cui il comportamento del locatore che non abbia mai preteso il pagamento per un considerevole lasso di tempo, farebbe sorgere nella controparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, rappresentando un successivo atto di esercizio del diritto in questione, un caso di abuso del diritto. La Corte, tuttavia, non riterrà che il richiamato principio possa attagliarsi al caso di specie e confermerà la pronuncia della Corte di merito.
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
Il solo ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare dello stesso e per quanto tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di una inequivoca rinuncia tacita o di una modifica della disciplina contrattuale.
L’ORDINANZA
Cassazione civile, Sez. III, Ordinanza del 26/04/2024, n. 11219
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dai Magistrati
Dott. FRASCA Raffaele G. A. – Presidente
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere
Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere
Dott. SPAZIANI Paolo – Rel. Consigliere
Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 31233/2021 R.G.,
proposto da
A.A., quale titolare della ditta individuale B.B. di A.A.; rappresentato difeso dall’Avv. Lorenzo Eccher (lorenzo.eccher@pectrentoavvocati.it), in virtù di procura margine del ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di
C.C., in persona del legale rappresentante pro tempore D.D.; rappresentata e difesa dagli Avvocati Michela Pacchielat (avvmichelapacchielat@pecgiuffre.it) e Giandomenico De Francesco (gdefrancecso@legalmail.it), in virtù di procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza n. 229/2021 della CORTE d’APPELLO di TRENTO, depositata e notificata il giorno 4 ottobre 2021; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 marzo 2024 dal Consigliere Paolo Spaziani.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza 16 marzo 2021, n. 219, il Tribunale di Trento dichiarò risolto per inadempimento del conduttore A.A., titolare della ditta individuale B.B., il contratto da lui stipulato con la C.C., con cui questa società gli aveva concesso in locazione, con decorrenza dal settembre 2014, un immobile ad uso commerciale sito in F..
Il Tribunale, accertato l’inadempimento del conduttore all’obbligazione di pagamento dei canoni dal febbraio 2015 al marzo 2020, rigettò l’eccezione di compensazione da lui sollevata, avente ad oggetto il controcredito per forniture di materiale lapideo, e lo condannò a pagare alla locatrice la somma di oltre 125.000 Euro, pari al complessivo debito maturato.
2. La decisione del Tribunale è stata integralmente confermata dalla Corte d’appello di Trento che, con sentenza 4 ottobre 2021, n. 229, ha rigettato l’impugnazione proposta da A.A..
3. Quest’ultimo propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Risponde la C.C. Srl con controricorso.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, ai sensi delrart.380-bis.1 cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell’art. 437 cod. proc. civ. (richiamato dall’art. 447-bis cod. proc. civ.) in combinato disposto con l’art. 81 cod. proc. civ..
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia reputato inammissibile, perché tardivamente sollevata solo in appello, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva della C.C. Srl.
Evidenzia che egli, solo dopo il deposito della sentenza di primo grado, aveva appreso la circostanza che il 30 ottobre 2014 era stato iscritto un pignoramento immobiliare sull’immobile oggetto di locazione, cancellato in data 19 febbraio 2021.
In ragione di tale circostanza, aveva quindi sollevato l’eccezione di carenza di legittimazione attiva della C.C. in ordine alla esercitata azione di adempimento, sul presupposto che la legittimazione medesima spettasse esclusivamente al custode.
Questa eccezione era stata rigettata dalla Corte d’appello, sul diverso duplice presupposto che fosse stata tardivamente sollevata e che, in ogni caso, la legittimazione del custode non escludeva quella concorrente della debitrice esecutata, quale proprietaria-locatrice del bene pignorato.
Entrambi le rationes poste a fondamento della decisione assunta dalla Corte di merito erano, peraltro, erronee, atteso, da un lato, che l’eccezione di difetto di legittimazione attiva è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio; e considerato, dall’altro, che per ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di pignoramento del bene locato, la legittimazione ad agire per conseguire il credito costituito dai canoni rimasti in tutto o in parte non pagati, successivi al pignoramento, spetta in via esclusiva al custode.
1.1. Il motivo deve essere disatteso.
I rilievi della Corte di merito, in ordine alla tardività dell’eccezione di difetto di legittimazione attiva e alla concorrenza della legittimazione ad agire del proprietario-locatore del bene pignorato con quella del custode per il conseguimento dei canoni successivi al pignoramento, sono erronei, ma il dispositivo della sentenza è conforme al diritto, sicché non vi è luogo a cassazione ma solo a correzione della motivazione (art.384, ultimo comma, cod. proc. civ.).
In proposito, va rilevato che il custode, il quale agisca a tutela della conservazione del valore del patrimonio affidatogli, si trova nella posizione del sostituto processuale (Cass. 31/03/2006, n. 7693) e, in quanto amministratore di un patrimonio separato, come tale centro di imputazione di rapporti giuridici, è bensì titolare della legittimazione “ad processum”, ovverosia del potere di stare in giudizio in rappresentanza del patrimonio stesso, ma non della legittimazione “ad causam”, la quale compete direttamente al patrimonio separato, cui fanno capo le situazioni giuridiche soggettive sostanziali, attive e passive (cfr. Cass. 28/08/1997, n. 8146; più recentemente, Cass. 14/03/2018, n. 6138).
II problema della perdita di legittimazione del debitore pignorato in favore di quella del custode (salvo che i due soggetti coincidano) non è, dunque, un problema di legittimazione sostanziale, cioè di titolarità della posizione oggetto di discussione, ma di spettanza del relativo potere rappresentativo.
Nel caso di specie, essendo incontroverso che il pignoramento era stato cancellato in prossimità della conclusione del giudizio di primo grado, e che il potere rappresentativo era stato riacquistato dalla società locatrice (già debitrice esecutata) prima dell’introduzione di quello d’appello, va attribuito rilievo alla circostanza che la mancanza di esso non aveva formato oggetto di contestazione in primo grado, mentre la contestazione effettuata con l’atto di appello è restata irrilevante per lo svolgimento del primo grado, dal momento che un difetto di rappresentanza verificatosi nel primo grado di giudizio non può essere lamentato nel grado successivo.
L’eccezione di difetto di legittimazione della C.C. Srl avrebbe dunque dovuto rigettarsi, previa qualificazione della stessa quale eccezione di difetto di potere rappresentativo, in ragione della cessazione del pignoramento, della correlativa perdita della legittimazione rappresentativa da parte del custode e della corrispondente riacquisizione della stessa in capo alla società titolare del diritto, verificatesi prima della proposizione dell’appello; in tal senso va corretta la motivazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo, come detto, è conforme a diritto.
Il primo motivo, pertanto, deve essere rigettato.
2. Con il secondo motivo viene denunciata, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 132, secondo comma, n.4, cod. proc. civ..
Il ricorrente si duole che la Corte d’appello non abbia accolto l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per difetto di motivazione.
Osserva che il Tribunale non aveva esposto i motivi per i quali aveva ritenuto accertato il suo inadempimento e che pertanto la Corte d’appello avrebbe dovuto rilevare tale nullità, da lui debitamente eccepita, rimettendo la causa al primo giudice, anziché decidere nel merito.
2.1. Il motivo è manifestamente infondato.
I casi in cui il giudice d’appello rimette la causa al primo giudice sono limitati alle specifiche e tassative ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis).
Correttamente, pertanto, la Corte d’appello, sul presupposto che le ragioni di nullità si convertono in motivi di gravame, ha delibato il merito della domanda, di fronte all’ipotetica mancanza di motivazione della sentenza di primo grado e alla riconosciuta sua nullità per tale ragione.
Anche il secondo motivo, dunque, deve essere rigettato.
3. Con il terzo motivo viene denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ..
Il ricorrente sostiene che, nel chiedere il pagamento di 52 canoni di locazione senza aver mai chiesto prima nulla, la società locatrice avrebbe violato i canoni di correttezza e buona fede, incorrendo in un abuso del diritto.
Lamenta, dunque, che tale abuso non sia stato rilevato dalla Corte di merito, la quale, nel rigettare il motivo di gravame da lui formulato, ha ritenuto, in generale, che il ritardo nell’azionare un credito non concretizzi di per sé alcun abuso o illecito e ha rilevato, in particolare, che, nella fattispecie, l’inerzia della proprietaria-locatrice, quantunque non comune, trovava tuttavia giustificazione nel pignoramento immobiliare subìto e nello stato di malattia di uno dei soci.
3.1. Il motivo è infondato.
3.1.a. Al riguardo va evidenziato che questa Corte, in una isolata pronuncia citata dal ricorrente a sostegno della doglianza in esame, ha statuito che, in tema di locazione di immobili ad uso abitativo, integra abuso del diritto la condotta del locatore, il quale, dopo aver manifestato assoluta inerzia per un periodo di tempo assai considerevole in relazione alla durata del contratto, rispetto alla facoltà di escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del canone dovutogli, così ingenerando nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito “per facta concludentia”, formuli un’improvvisa richiesta di integrale pagamento del corrispettivo maturato; ciò in quanto, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata, trova applicazione il principio di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., quale canone generale di solidarietà integrativo della prestazione contrattualmente dovuta, che opera a prescindere da specifici vincoli contrattuali, nonché dal dovere negativo di “neminem laedere”, e che impegna ciascuna delle parti a preservare l’interesse dell’altra nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio (Cass. 14/06/2021, n. 16743).
3.1.b. Questa pronuncia non giova alle ragioni del ricorrente, sia perché riferita ad una fattispecie (locazione di immobili ad uso abitativo) diversa da quella di cui alla presente vicenda processuale (la quale riguarda una locazione di immobile ad uso commerciale); sia perché, nell’affermare il surricordato principio, questa Corte ha precisato che l’abuso del diritto postula che l’inerzia del titolare sia tale da ingenerare nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito “per facta concludentia”; circostanza che non può dirsi integrata nel caso di specie, poiché la persistente sussistenza, sino al febbraio 2021, di un pignoramento immobiliare che limitava la legittimazione ad agire della proprietaria, certamente non poteva ingenerare nel conduttore alcun affidamento sull’eventuale remissione del debito per canoni scaduti.
3.1.c. In ogni caso – e più in generale – l’orientamento espresso con la richiamata pronuncia non pare in assoluto condivisibile al Collegio.
Esso orientamento si traduce, infatti, in una incondizionata apertura all’operatività, nell’ordinamento italiano, di un istituto ad esso sconosciuto, consistente nella Verwirkung del diritto tedesco, quale consumazione del diritto collegato all’inattività (Rechtsverschweigung) del titolare, di cui il codice civile tedesco tradizionalmente fa applicazione, in particolare, in materia di perdita del “praemium inventionis” (Par. 971), della provvigione del mediatore (Par.654) e del diritto al pagamento della clausola penale (Par.339).
Questo istituto trova fondamento nel principio, basato sulla buona fede, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio di un diritto creditorio o potestativo, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella controparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, comporta che un successivo atto di esercizio del diritto in questione rappresenti un caso di abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente rifiuto della tutela giudiziaria, per il principio della buona fede nell’esecuzione del contratto.
Sebbene anche nell’ordinamento italiano analoghe conseguenze siano state talora collegate da questa Corte a fattispecie peculiari (le più numerose delle quali si collocano nell’ambito del diritto del lavoro e concernono il ritardo del datore di lavoro nel contestare la giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 cod. civ. o quello del prestatore di lavoro nella prosecuzione del rapporto: v. ad es., Cass. civ., Sez. lav., n. 23739 del 2008; Cass. civ., Sez. lav., n. 9883 del 2017; Cass. civ., Sez. lav., n. 6900 del 2016), tuttavia nel nostro ordinamento non può darsi ingresso in via generale al principio della Verwirkung.
La clausola generale di buona fede impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali e da quanto espressamente stabilito da singole norme di legge; in virtù di questo principio ciascuna parte è tenuta, da un lato, ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche l’inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse. Ad un tale riguardo, il semplice ritardo di una parte nell’esercizio di un diritto (nel caso di specie, diritto di agire per far valere l’inadempimento della controparte) può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun interesse del suo titolare, correlato ai limiti e alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la controparte.
D’altra parte, la volontà tacita di rinunziare ad un diritto si può desumere soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli la sua univoca volontà di non avvalersi del diritto stesso, laddove l’inerzia o il ritardo nell’esercizio del diritto non costituiscono elementi sufficienti, di per sé, a dedurne la volontà di rinuncia, potendo essere frutto di ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa, e spiegano rilevanza soltanto ai fini della prescrizione estintiva.
Pertanto, il solo ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare dello stesso e per quanto tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di una inequivoca rinuncia tacita o di una modifica della disciplina contrattuale (in tal senso, Cass. 15/03/2004, n. 5240; Cass. 15/10/2013, n. 23382; Cass. 28/01/2020, n. 1888).
Facendo applicazione di questi principi al caso di specie, da un lato, deve escludersi che l’inerzia della C.C., per quanto prolungata, avesse concretato una violazione del dovere di buona fede cui collegare il rifiuto di tutela giurisdizionale; dall’altro lato, deve altresì escludersi che il diritto di credito fosse stato implicitamente rinunciato, con conseguente necessità di rigettare il motivo di ricorso in esame.
4. Con il quarto motivo viene denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1241 cod. civ..
La sentenza impugnata è censurata per aver negato la compensazione del credito della locatrice al pagamento dei canoni con il controcredito del conduttore al corrispettivo delle forniture di materiale lapideo.
Secondo il ricorrente, la Corte di merito avrebbe errato nel non ammettere la compensazione per la mancanza dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del controcredito, in quanto le parti si erano accordate perché il conduttore adempisse mediante “datio in solutum”, attraverso la fornitura dei materiali, sicché veniva in considerazione un’ipotesi di compensazione impropria, in cui le contrapposte ragioni di credito e debito scaturivano dal medesimo rapporto.
Il ricorrente deduce, al riguardo, che già al momento del deposito dell’originaria comparsa di risposta aveva allegato fatture per un importo di oltre 17.000 Euro, oltre al mastrino della società, dimostrativo di una chiusura a credito per la somma di oltre 5.000 Euro, e che nel corso del giudizio di primo grado aveva altresì depositato una ulteriore fattura di oltre 95.000 Euro.
Evidenzia che tali fatture erano tutte relative a consegne di materiale in favore della locatrice e assume che queste consegne sarebbero state dimostrate anche dalle dichiarazioni scritte di diversi testimoni, depositate all’udienza del 2 settembre 2019.
4.1. Il motivo è inammissibile.
Esso, infatti, lungi dal denunciare un “error in iudicando”, tende a suscitare una ricostruzione dei fatti e una valutazione delle prove alternative a quelle compiute dalla Corte di merito.
Quest’ultima ha motivatamente accertato che le sole consegne di porfido documentate erano quelle di cui si faceva menzione in 7 fatture relative al biennio 2014-2015, che erano state imputate dalla consegnataria ai canoni maturati nel periodo del rapporto locatizio antecedente a quello oggetto dell’azione di adempimento. Non erano state invece documentate consegne nel periodo successivo, in quanto il brogliaccio relativo alle forniture degli anni 2016-2017 altro non era che “una serie di informali appunti”, mentre la fattura “postuma” emessa a lite iniziata, in data 30 agosto 2019, di oltre 95.000 Euro, non aveva alcun valore probatorio, anche perché non accompagnata da alcun riferimento ad ordini o a documentazione fiscale o di trasporto, senza contare che era stata immediatamente contestata dalla controparte.
Nel censurare, inammissibilmente, tale statuizione di merito sul postulato di avere invece fornito la prova di un accordo avente ad oggetto l’estinzione per “datio in solutum” (attraverso la fornitura di materiale) dell’obbligazione derivante dalla locazione, il ricorrente omette di considerare che l’accertamento delle circostanze di fatto rilevanti ai fini della decisione e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie funzionali a tale accertamento sono attività riservate al giudice del merito, cui compete non solo la valutazione delle prove ma anche la scelta, insindacabile in sede di legittimità, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 4 luglio 2017, n. 16467; Cass. 23 maggio 2014, n. 11511; Cass. 13 giugno 2014, n. 13485; Cass. 15 luglio 2009, n. 16499).
5. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato.
6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
7. Avuto riguardo al tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art.13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.600,00 per compensi, oltre esborsi liquidati in Euro 200,00 spese forfetarie e accessori;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, in data 14 marzo 2024.
Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2024.