“L’ABERRANTE APPLICAZIONE DELL’ART. 96 C.P.C.” nota a Trib. Milano, sez. II, decreto 15.1.2015 – di Marcello Adriano MAZZOLA
1. La fattispecie. – Aberrante. Non vi sono altri aggettivi che possano essere adoperati dinanzi ad un cotale decreto, reso a firma del collegio composto dai giudici Bruno (presidente), D’Aquino (relatore), Mammone (giudice) della seconda sezione del Tribunale di Milano. Iniziamo col fare i nomi, – dunque con l’attribuire la paternità del provvedimento dirompente e assolutamente inedito nel panorama giurisprudenziale -, dei giudici.
Il contenuto del decreto nel merito non ci interessa. Potrà essere ineccepibile o pur anche brillante e straordinario. In tal caso il plauso non mancherebbe certo da parte nostra.
Non ci interessa poiché l’attenzione non può che cadere sulla parte in cui il collegio giunge a scrivere che “Va osservato come parte opponente abbia depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza lapredisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa tra il Tribunale di Milano e l’Ordine degli avvocati di Milano del 26.06.2014, rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese. Tale circostanza comporta l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. come da dispositivo.” dunque poi giungendo a condannare e liquidare in ragione di ciò € 5.000.
2. Il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. – Come noto l’art. 96 del codice di procedura civile è intitolato “Responsabilità aggravata” ed è appropriatamente – per veste nominale – inserito nel Capo IV “Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali”, del Titolo III “Delle parti e dei difensori”, del Primo Libro, dedicato alle disposizioni generali, del codice di rito. L’articolo è composto da ben tre commi e così recita, ora a seguito della recente modifica avvenuta con la novella del codice di rito ex l. 18.6.2009, n. 69 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” che ha appunto aggiunto il terzo comma, non senza creare ambiguità e apparenti distonie con l’ intera struttura della norma, di rito e sostanziale. Recita difatti il terzo comma che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.” (art. 96, III co. c.p.c.).
Il terzo comma ha certamente rivoluzionato l’applicazione di tale forma di responsabilità, imponendo secondo l’opinione oramai prevalente, un modello quale quello punitivo non proprio della r.c. italiana ma appartenente ad altri sistemi giuridici, connotando la cultura anglo-americana.
La dottrina e la giurisprudenza oramai si soffermano lungamente su un istituto di straordinaria importanza, rafforzato ovviamente in chiave deflativa prima dalla giurisprudenza e appunto da ultimo nel 2009 dal legislatore, a fronte di svariati casi di abuso processuale che, come correttamente ricordato oramai a memoria dalle corti, costituiscono non solo un grave vulnus alla parte processuale ma pure alla collettività intera, aumentando il numero dei processi pendenti sino ad indebolire l’intero sistema giurisdizionale e il diritto alla difesa ex art. 24 Cost.
E sin qua siamo tutti d’accordo: l’abuso processuale va puntualmente sanzionato, punito, risarcito. Appunto, l’abuso processuale, non la lesa maestà. Ed ancor meno la supposta lesa maestà.
3. Le critiche al decreto. – Non è qua il caso di addentrarsi nei complessi meandri della figura che partecipa alla responsabilità civile, poiché sarebbe ultroneo rispetto alle severe critiche che esporremo. Critiche non certo sulla opportunità o meno della scelta del collegio di giungere ad applicare ed a riconoscere il danno punitivo in una fattispecie caratterizzata dall’aver “depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa [così] rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese.”.
Chi scrive ritiene di poter conoscere, perlomeno a sufficienza l’art. 96 c.p.c. avendo dedicato ad esso quasi una intera monografia (Mazzola M.A., Responsabilità processuale, Utet, Torino, 2013, pp. 804) ed ancor prima analogamente una più breve monografia (Mazzola M.A., Responsabilità processuale e danno da lite temeraria, Giuffrè, Milano, 2010). Muoverò dunque critiche non per sentito dire ma perché il collegio applica assolutamente impropriamente l’art. 96 c.p.c., censurando una condotta paraprocessuale (dunque si badi bene, neppure processuale, né tanto meno sostanziale) che neppure avrebbe dovuto mai essere sanzionata. Mai. Ed è assai grave averlo fatto.
Partirò da lontano, così non potrò essere accusato di avere acredine verso i giudici (che hanno tutto il mio rispetto ma quando si mostrano diligenti, la mia venerazione quando si mostrano pure brillanti e coraggiosi, le mie censure al contrario). I presupposti di tale decreto affondano nelle responsabilità e nelle condotte e scelte dell’avvocatura. Si avete letto bene: l’ avvocatura è la mandante morale di un tale decreto. Quell’avvocatura che in questi decenni si è resa servile, pregna di piaggeria e di sindrome da scendiletto verso la magistratura, accettandone qualsivoglia pretesa, legittima o illegittima che fosse, dimenticando ed ignorando come nelle corti di giustizia debba vigere sempre e comunque la parità tra giudicante e difesa. Parità che pretende pari dignità e pari rispetto.
Invece l’avvocatura ha nei decenni, anche grazie alle rappresentanze istituzionali e politiche ceduto tale dignità, accettando di svolgere le funzioni di cancelliere nei processi (perché?), di agevolare i magistrati nelle loro funzioni (dotandoli via via di praticanti e scribacchini), non ultimo di integrare le lacune del Processo Civile Telematico (leggasi Milano ed altri ordini, che comunque hanno svolto pure un ruolo prezioso nello sviluppo ed avvio del PCT) sino a siglare “protocolli d’intesa” tali da vanificare la ratio legis che ha condotto (faticosamente, schizofrenicamente) il legislatore a realizzare (ancora incompiutamente peraltro) il PCT.
Invero, il PCT (che ad oggi ci è costato, dunque alla collettività intera, circa 4 miliardi di €uro in 10 anni, quando bastava indire una gara di appalto ed auspicare che intervenisse Microsoft et similia, e non avremmo il mediocre risultato attuale) è nato per spostare, semplificare, agevolare, snellire tutto il processo civile dal cartaceo al telematico, così avendo a disposizione maggiori risorse (umane e economiche) per il funzionamento dei processi. Uno di questi principi è dunque “niente carta, si alla gestione informatica del processo”, se vogliamo così anche marginalmente con un minore impatto ambientale.
Si aggiunga come in questi anni il Contributo Unificato sia esponenzialmente aumentato, in chiave deflativa e come strumento per risanare le casse dello Stato fallito, così da assicurare ampie risorse economiche al Ministero di Giustizia, che riutilizza solo in minima parte al proprio interno!
Non paghi di tutto ciò gli Ordini hanno incredibilmente pensato di offrire ulteriormente i propri servigi siglando con i tribunali di riferimento un gentlemen agreement (ergo un protocollo) per garantire ai magistrati (oltre agli adempimenti del PCT che gravano sugli avvocati) pure una “copia cortesia cartacea”, come se gli stessi magistrati: a) non siano in grado di leggere gli atti telematici; b) non siano in grado di farsene stampare una copia dalla cancelleria; c) non siano in grado, in subordine, di stamparsene una copia in proprio.
Gli Ordini – i tantissimi Ordini, posto che al riguardo si è innescato un virtuosismo assolutamente negativo – così hanno sbagliato perlomeno tre volte: a) la prima perché hanno fatto rientrare dalla finestra ciò che il PCT ha inteso debellare; b) la seconda perché hanno gravato gli avvocati di un ulteriore adempimento; c) la terza perché pretendono dagli avvocati che continuino a sostituirsi agli inadempimenti della cancelleria (e/o in subordine dei magistrati). Tutto ciò ignorando come il Contributo Unificato, aumentato esponenzialmente, sia tale da poter soddisfare e sfamare qualsivoglia copia cartacea a spese del Ministero della Giustizia, addirittura oggi forse in filigrana d’oro (o in pelle umana, parafrasando note battute fantozziane).
Questa solo la premessa.
In punto di puro diritto il decreto è parimenti aberrante. Lo è perchè punire la condotta di aver “depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa [così] rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese.” nulla centra con l’art. 96 c.p.c.. Infatti la condotta censurata e punita non è una condotta:
(1) punibile, perché non è coperta da alcuna una fonte normativa e/o regolamentare, atteso che il protocollo è un mero gentlemen agreement che per cortesia suggerisce alle parti adempimenti e non certo doveri e che tutte le molteplici fonti sul PCT nulla prescrivono al riguardo (e ci mancherebbe altro!);
(2) è una condotta comunque paraprocessuale, poiché attinente ad una modalità di deposito degli atti difensivi e non alla difesa vera e propria;
(3) non costituisce alcun abuso del processo né tanto meno danneggia la parte processuale avversa;
(4) in ogni caso, checché ne scriva il collegio, non rende certo “più gravoso per il collegio esaminarne le difese” (son privi i giudici di cancelleria? Son soggetti privi di stampante e/o di manualità?);
(5) non ultimo, pur volendo ignorare le già dirimenti censure, investe una condotta squisitamente ed esclusivamente del difensore mentre l’art. 96 c.p.c. è diretta direttamente alla parte processuale.
Un tale decreto, in tale parte lo si ripete, a mio avviso costituisce un gravissimo precedente, peraltro tale da connotare la responsabilità civile del magistrato nonché anche quella disciplinare, poiché spinge l’applicazione dell’ art. 96 c.p.c. su un versante non solo non voluto dal legislatore ma neppure immaginato. Eppure di questi tempi, il legislatore freme dal desiderio di deflazionare qualsivoglia contenzioso giurisdizionale.
Il mio auspicio è che al riguardo intervenga duramente e immediatamente l’Organismo Unitario dell’Avvocatura ed anche sul versante istituzionale il Consiglio Nazionale Forense. Immediatamente per arginare un’aggressione alla dignità del diritto di difesa. Inutile difatti ridondare la nostra veste costituzionale se poi al momento opportuno non siamo in grado di difenderla. E di difenderci.
Mazzola Marcello Adriano