IL PASSO SALIENTE DELLASENTENZA
[…] l’affermata “mancanza del modello organizzativo” non può costituire elemento tipico dell’illecito amministrativo in contestazione, per la cui sussistenza occorre invece fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una “colpa di organizzazione” dell’ente, aspetto che non è stato minimamente affrontato dalla Corte territoriale.[…]
“[…] gli aspetti che riguardano le dotazioni di sicurezza e i controlli riguardanti il macchinario specifico sul quale si è verificato l’infortunio, attengono essenzialmente a profili di responsabilità del soggetto datore di lavoro; quindi, a profili colposi degli amministratori della società cui è stato addebitato il reato, in relazione alla riscontrata violazione della normativa per tutela della sicurezza sul lavoro. Tali profili, di per sè, nulla hanno a che vedere con l’elemento “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente. Tale elemento costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato.
In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perchè fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).
Ne consegue che, nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui).”
LA SENTENZA
(Dott. DOVERE Salvatore – Presidente – Dott. RANALDI Alessandro – rel. Consigliere)
Cassazione penale, Sez. IV, Sentenza del 10/05/2022, n. 18413
(Omissis)
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 11.1.2021, la Corte di appello di Venezia ha confermato la decisione del Tribunale di Vicenza che aveva ritenuto la S.r.l. (OMISSIS) (d’ora in poi, (OMISSIS)) responsabile dell’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-septies, comma 3, per avere – come ente alle cui dipendenze lavorava la persona offesa R.I., rimasta ferita alla mano sinistra durante una operazione di raddrizzamento di un cartone che non scorreva correttamente nella macchina piegatrice e incollatrice in uso – consentito il verificarsi del reato di lesioni personali, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica; reato contestato al legale rappresentante della società, commesso – secondo l’accusa – nell’interesse dell’ente, in ragione dell’assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, e in particolare di un organo di vigilanza che verificasse con sistematicità e organicità la rispondenza delle macchine operatrici, acquistate e messe in linea, alle normative comunitarie in tema di sicurezza, nonchè l’adeguatezza dei sistemi di sicurezza installati sulle stesse (incidente avvenuto il (OMISSIS)).
La Corte di appello, nel confermare la responsabilità dell’ente, ha dato atto della mancanza – nel macchinario e all’epoca dei fatti – di un dispositivo di spegnimento automatico in caso di toccamento delle lamiere, solo successivamente integrato nel dispositivo; ha, quindi, individuato l’interesse della società, idoneo a configurare la responsabilità della (OMISSIS), nella mancata rivalutazione e monitoraggio dell’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, in quanto privo dei dispositivi di blocco necessari ad evitare infortuni come quello in esame, avvenuto nel 2011, nonchè la mancanza di un modello organizzativo in materia prevenzionistica.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore della (OMISSIS), lamentando quanto segue.
Violazione di legge e vizio di motivazione, per avere, da una parte, riconosciuto come la lavoratrice fosse esperta e istruita adeguatamente quanto a conoscenza delle procedure e dei rischi, e ciononostante avesse, in occasione dell’infortunio, agito d’istinto, spostando il foglio con la mano senza fermare la macchina per non rallentare il lavoro; dall’altra, nonostante la lavoratrice avesse tenuto un comportamento antitetico al modello insegnato e conosciuto, i giudici di merito hanno omesso di riconoscere l’interruzione del nesso causale ovvero, in subordine, non hanno reso specifica motivazione sulle ragioni per le quali la società sia tenuta a rispondere “oggettivamente” di qualsivoglia atteggiamento istintuale, posto in essere persino da una lavoratrice esperta.
Deduce, inoltre, la contraddizione in cui incorre la sentenza impugnata, laddove addebita alla società la mancata rivalutazione in ordine all’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, nonostante abbia in precedenza dato conto degli esiti dei controlli del 2008 effettuati dall’Organismo Notificato CE nonchè di quelli del 2009 ad opera del Dott. M., tecnico incaricato dall’ente allo scopo.
Rileva come la Corte territoriale non abbia fornito alcuna risposta in merito all’esistenza dell’interesse in capo all’ente, direttamente derivante dall’omessa adozione del c.d. modello organizzativo, a fronte di costi assai elevati sostenuti dall’ente in materia di sicurezza, come documentato in appello, a dimostrazione di una costante scelta aziendale di investimento e spese in sicurezza, incompatibile con l’affermata finalità orientata al risparmio sui conti d’impresa.
Osserva, infine, come nella specie non sia stato evidenziato alcun concreto collegamento finalistico tra la violazione prevenzionistica e l’interesse dell’ente, nè alcun concreto vantaggio di cui avrebbe beneficiato la società ricorrente dalle riscontrate omissioni.
Motivi della decisione
1. Il ricorso merita accoglimento, per le ragioni di seguito indicate.
2. Occorre prendere le mosse dalla struttura dell’addebito contestato all’ente, che attiene all’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-septies, comma 3; il reato presupposto indicato è quello di lesioni personali subite dalla dipendente R.I., aggravato dalla violazione di norme prevenzionistiche, commesso da soggetti rivestenti posizioni apicali nell’ente; il fatto ascritto alla (OMISSIS) è quello di avere “reso possibile” il verificarsi del detto reato, in quanto commesso nel suo interesse, stante l’assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, ed in particolare l’assenza di un organo di vigilanza preposto alla verifica dei sistemi di sicurezza delle macchine operatrici.
Non si può fare a meno di osservare che già dalla descrizione del capo d’accusa non emerga con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato alla società (OMISSIS) ai sensi della disciplina del decreto n. 231, avuto riguardo al menzionato interesse dell’ente rapportato alla riscontrata assenza di un “modello organizzativo”, nozione che si riconduce a quei “modelli di organizzazione e di gestione” richiamati dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6 e 7, la cui efficace adozione consente all’ente di non rispondere dell’illecito, ma la cui mancanza, di per sè, non può implicare un automatico addebito di responsabilità.
3. In proposito, sarà utile accennare ad alcune nozioni che attengono al sistema di responsabilità dei soggetti collettivi delineato dal D.Lgs. n. 231 del 2001, dando conto di alcuni principi giurisprudenziali sviluppati sul tema, trattandosi di materia aventi indubbie peculiarità sotto il profilo giuridico.
E’ noto che sussistono due criteri d’imputazione oggettiva del fatto illecito all’ente in quanto tale, nel senso che l’illecito amministrativo a carico del soggetto collettivo si configura quando la commissione del reato presupposto (da parte delle persone fisiche che agiscono per conto dell’ente) sia funzionale ad uno specifico interesse o vantaggio a favore dell’ente stesso (v. art. 5 del D.Lgs. n. 231 cit.); si tratta di concetti alternativi e concorrenti tra loro, in quanto l’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (cfr. S.U. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261113-01).
La Suprema Corte ha recentemente ribadito che la struttura dell’illecito addebitato all’ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale corrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggettò incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (così, in motivazione, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo). Ciò consente di affermare che l’ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui, ma non pone al riparo da possibili profili di responsabilità meramente oggettiva, sicchè il giudice di legittimità ha affermato “la necessità che sussista la c.d. ‘colpa di organizzazionè dell’ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. Grava sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell’interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende ‘per rimbalzò dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo” (cfr. Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247666).
Si tratta di un’interpretazione che attribuisce al requisito della “colpa di organizzazione” dell’ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione “colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare.
Sotto questo profilo, la già citata Sez. 4, n. 32899/2021 ha efficacemente osservato che proprio l’enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, convince che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente al Dlgs. n. 231 del 2001, artt. 6 e 7, e al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 30, non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall’accusa, mentre l’ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa.
Pertanto, l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell’illecito dell’ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente (cd. immedesimazione organica “rafforzata”), la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due.
4. Le superiori considerazioni spiegano le iniziali perplessità manifestate dal Collegio con riferimento alla struttura dell’illecito delineata nel capo di imputazione, nel quale, in buona sostanza, ci si limita ad addebitare all’ente la mera assenza di un modello organizzativo, senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la “colpa di organizzazione” da cui sarebbe derivato il reato presupposto, che è cosa diversa dalla colpa riconducibile ai soggetti apicali autori del reato. Questi ultimi, infatti, sono stati ritenuti colpevoli del reato in ragione della commissione di specifiche omissioni e violazioni della normativa prevenzionistica, nella loro qualità di datori di lavoro; l’ente, di contro, risponde a diverso titolo – di un illecito distinto, sia pure derivante dal medesimo reato.
5. La motivazione della sentenza impugnata rispecchia la carente ed ambigua formulazione dell’editto accusatorio, offrendo a sua volta un percorso argomentativo carente e contraddittorio in punto di responsabilità dell’ente, per certi versi sovrapponendo e confondendo i profili di responsabilità da reato degli amministratori/datori di lavoro dai profili di responsabilità da illecito amministrativo della (OMISSIS).
Ciò appare evidente nella parte in cui la sentenza impugnata, sostanzialmente, addebita alla (OMISSIS) la riscontrata mancanza del dispositivo di spegnimento automatico del macchinario, la cui implementazione avrebbe impedito l’evento, e l’omessa verifica periodica dei macchinari; profili colposi indubbiamente ascrivibili agli amministratori della società, quali datori di lavoro tenuti al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all’ente in quanto tale.
6. I giudici di merito, in definitiva, fondano la responsabilità amministrativa della (OMISSIS) sulla “accertata mancanza del modello organizzativo” e sul conseguente “risparmio di spesa quale tempo lavorativo da dedicare alla sua predisposizione ed attuazione”, richiamando, genericamente, ulteriori voci di (possibile) risparmio di spesa (si accenna ai costi sulle consulenze, sugli interventi strumentali e sulle attività di formazione e di informazione del personale, peraltro senza spiegarne la rilevanza specifica al caso in esame).
Ebbene, si è già visto che l’affermata “mancanza del modello organizzativo” non può costituire elemento tipico dell’illecito amministrativo in contestazione, per la cui sussistenza occorre invece fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una “colpa di organizzazione” dell’ente, aspetto che non è stato minimamente affrontato dalla Corte territoriale.
Peraltro, i giudici di appello cadono anche in contraddizione laddove, da una parte, affermano che nel caso vi sarebbe stata una mancata rivalutazione e monitoraggio dell’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, rispetto alla data dell’infortunio, avvenuto nel 2011; dall’altra, accennano ad un esame visivo e funzionale del macchinario ad opera dell’Organismo notificato CE, avvenuto nel 2008, circostanza che, unitamente al riscontrato documento di valutazione dei rischi redatto nel giugno 2009 dal Dott. M. (che rispetto al rischio relativo alla presa e trascinamento degli arti aveva ritenuto adeguate le protezioni esistenti), sembra smentire l’assunto iniziale della Corte di merito.
E’ bene, tuttavia, ribadire e sottolineare che gli aspetti che riguardano le dotazioni di sicurezza e i controlli riguardanti il macchinario specifico sul quale si è verificato l’infortunio, attengono essenzialmente a profili di responsabilità del soggetto datore di lavoro; quindi, a profili colposi degli amministratori della società cui è stato addebitato il reato, in relazione alla riscontrata violazione della normativa per tutela della sicurezza sul lavoro. Tali profili, di per sè, nulla hanno a che vedere con l’elemento “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente. Tale elemento costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato.
In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perchè fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).
Ne consegue che, nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui).
Ciò rafforza l’esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato.
7. La conclusione, sulla scorta delle superiori considerazioni, è che la Corte territoriale non ha motivato sulla concreta configurabilità, nella vicenda in esame, di una colpa di organizzazione dell’ente, nè ha stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto.
Invero, la sentenza impugnata appare affetta da evidenti errori in diritto, in quanto ha offerto una inammissibile lettura della norma di cui all’art. 25-septies cit., in base alla quale l’affermazione della responsabilità dell’ente consegue indefettibilmente alla sola dimostrazione della sussistenza del reato presupposto e del rapporto di immedesimazione organica dell’agente; il tutto, fra l’altro, attribuendo all’organismo di vigilanza compiti incardinati nel sistema di gestione della sicurezza (dei macchinari aziendali) del tutto estranei ai compiti che l’art. 6 del D.Lgs. n. 231 del 2001 assegna a tale organismo, che sono essenzialmente quelli di sorvegliare e verificare regolarmente la funzionalità e l’osservanza dei modelli organizzativi richiamati dallo stesso art. 6 cit.
I giudici di merito, invece, avrebbero dovuto approfondire anche e soprattutto l’aspetto, relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall’impresa in tema prevenzione dei reati della specie di quello dal quale ci si occupa in maniera tale da evidenziare la sussistenza di eventuali deficit di cautela propri di tale assetto, causalmente collegati con il reato presupposto.
8. Consegue l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice di merito individuato in dispositivo, che si atterrà ai principi indicati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2022.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2022