Cassazione civile, Sez. III, Ordinanza del 27 marzo 2018, n. 7513
La Corte di cassazione, ritenendo l’ammissione, da parte della società assicuratrice, dell’an del risarcimento, in tutto equiparabile alla non contestazione, ha fatto proprio il principio sancito dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 761 del 23 gennaio 2002, secondo cui i fatti non contestati devono ritenersi certi dal giudice, “senza nessuna possibilità di andare in contrario avviso”.
Nel caso di specie, la Compagnia di Assicurazioni, costituendosi nel giudizio di primo grado, non negò che il reddito della vittima si fosse ridotto, ma dedusse solo che la differenza tra il reddito percepito dalla vittima prima del sinistro e quello percepito dopo non fosse “significativa e sostanziale”. La Compagnia di Assicurazioni, infatti, nella comparsa conclusionale, non dedusse affatto “il danno non c’è, ma se ci fosse sarebbe pari ad Euro x”; al contrario, si limitò ad affermare tout court che il danno dimostrato dall’attore andava liquidato misura indicata nella comparsa suddetta. Dunque la Compagnia, nella comparsa di risposta, non negò l’esistenza del danno patrimoniale (limitandosi a definirlo “non significativo”); ed in quella conclusionale espressamente l’ammise. In tal modo tenne una condotta concludente, incompatibile con la volontà di negare l’esistenza del danno, che perciò doveva ritenersi non contestata. Da notarsi che di diverso avviso era stata invece, la Corte d’appello, che in accogliendo del gravame proposto dalla Compagnia Assicurativa, rigettò la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, ritenendola non provata. A quel punto al danneggiato non retava che proporre ricorso per cassazione di cui, di seguito, proponiamo l’ordinanza integrale. (CC)
L’ORDINANZA (integrale)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 548/2015 proposto da:
P.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAURENTINA 3/S, presso lo studio dell’avvocato ANDREA COSTANZO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA SORDA giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
ZURICH INSURANCE PLC, in persona del suo procuratore speciale Dott. M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
B.A., SABINA DOC SRL, INAIL (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 4150/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/12/2017 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.
Svolgimento del processo
- Nel 2005 P.C. convenne dinanzi al Tribunale di Frosinone la società Sabina DOC s.r.l., B.A., la società Zurich Insurance p.l.c. e l’Inail, esponendo che:
(-) il (OMISSIS) rimase ferito in conseguenza d’un sinistro stradale, avvenuto mentre era trasportato sul veicolo Iveco targato (OMISSIS), di proprietà della Sabina DOC s.r.l., condotto da B.A. ed assicurato contro i rischi della circolazione dalla società Zurich;
(-) essendo il sinistro avvenuto durante uno spostamento compiuto in occasione di lavoro, l’Inail gli aveva erogato una rendita, ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13;
(-) la Zurich gli aveva corrisposto somme inferiori al risarcimento dovutogli, avuto riguardo all’entità dei danni patiti.
Concluse pertanto chiedendo la condanna dei convenuti – ad eccezione dell’Inail, nei confronti del quale chiese una pronuncia di mero accertamento – al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del sinistro e non ancora risarciti.
- La Zurich si costituì eccependo l’esistenza d’un concorso di colpa della vittima.
L’Inail si costituì ammettendo la costituzione della rendita.
Gli altri convenuti restarono contumaci.
- Con sentenza n. 448 del 2012 il Tribunale di Frosinone accolse la domanda.
Con sentenza 18.6.2014 n. 4150 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il gravame della Zurich, così provvide:
(-) rigettò la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, in tesi scaturito dalla riduzione del reddito lavorativo, ritenendola non provata;
(-) ritenne che il Tribunale, aumentando del 25% la misura standard del risarcimento del danno biologico, al fine di tenere conto della circostanza che la vittima avesse dovuto rinunciare, a causa dei postumi residuati all’infortunio, alla cura dell’orto e del vigneto cui era solito in precedenza attendere, avesse duplicato il risarcimento, e di conseguenza ridusse il risarcimento del danno biologico del 25%;
(-) ricalcolò il credito residuo dell’attore, previa rivalutazione degli acconti pagati dall’assicuratore.
- La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da P.C., con ricorso fondato su undici motivi ed illustrato da memoria. Ha resistito con controricorso la Zurich.
Motivi della decisione
- Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 345.
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello ha rigettato in toto la sua domanda di risarcimento del danno patrimoniale, nonostante la Zurich, nella comparsa conclusionale depositata in primo grado, avesse abbandonato l’originaria contestazione formulata a tal riguardo nella comparsa di risposta, e contestato solo la misura di tale danno, non la sua esistenza.
La Zurich infatti – sostiene il ricorrente – nella comparsa conclusionale depositata nel primo grado di giudizio aveva ammesso che la vittima, a causa dell’infortunio, avesse perduto la speciale indennità che percepiva, come autotrasportatore, in occasione delle trasferte all’estero.
Di conseguenza – prosegue il ricorrente – la Corte d’appello ha violato l’art. 345 c.p.c., perchè ha preso in esame una eccezione che era stata abbandonata in primo grado dalla Zurich, e che, di conseguenza, nel grado d’appello si sarebbe dovuta ritenere inammissibile perchè nuova.
1.2. Il motivo è fondato.
Col proprio atto di citazione, P.C. aveva dedotto che, a causa dell’infortunio, il suo reddito mensile si era ridotto da 2.995,45 a 1.160 Euro mensili, ed aveva chiesto il risarcimento in misura corrispondente (così l’atto di citazione, pp. 9 e 10).
La Zurich, costituendosi nel giudizio di primo grado, non negò che il reddito della vittima si fosse ridotto, ma dedusse che la differenza tra il reddito percepito dalla vittima prima del sinistro e quello percepito dopo non fosse “significativa e sostanziale”; soggiunse comunque che nella stima del relativo danno si sarebbe dovuto tenere conto della “rendita notevole” che all’attore sarebbe stata erogata dall’Inail (così la comparsa di costituzione e risposta della Zurich in primo grado, p. 3).
Nella comparsa conclusionale, però, la Zurich dedusse: “il danno patrimoniale (da lucro cessante) richiesto in Euro 308.355,6 nell’atto introduttivo, è nettamente inferiore”.
Seguiva l’elenco dei redditi dichiarati dalla vittima negli anni dal 2001 al 2006, per come risultanti dalle dichiarazioni fiscali depositati agli atti, e da alcune buste-paga prodotte dall’attore.
Quindi, dopo avere discusso tali fonti di prova, la Zurich concluse affermando: “la differenza sta negli importi lordi percepiti dal P., che presentano una diminuzione di 700 Euro mensili (…). Riepilogando, all’attore spetta la somma di Euro 54.618,20 per danno patrimoniale”; ed aggiunse infine alcune considerazioni circa la necessità di detrarre dal risarcimento gli acconti già pagati dall’assicuratore del responsabile.
Vale la pena soggiungere che tali deduzioni non vennero svolte in via subordinata al rigetto dell’eccezione di inesistenza del danno. La Zurich, infatti, nella comparsa conclusionale, non dedusse affatto “il danno non c’è, ma se ci fosse sarebbe pari ad Euro “x”; al contrario, per quanto detto, si limitò ad affermare tout court che il danno dimostrato dall’attore andava liquidato nella misura indicata nella comparsa suddetta.
Dunque la Zurich, nella comparsa di risposta, non negò l’esistenza del danno patrimoniale (limitandosi a definirlo “non significativo”); ed in quella conclusionale espressamente l’ammise.
In tal modo tenne una condotta concludente, incompatibile con la volontà di negare l’esistenza del danno, che perciò doveva ritenersi non contestata.
1.3. Ciò posto in fatto, si rileva in diritto che le eccezioni tempestivamente sollevate in primo grado, se abbandonate, non possono essere riproposte in appello: l’eccezione abbandonata deve infatti ritenersi mai proposta, e se una eccezione non è sollevata in primo grado, non può essere ovviamente dedotta in grado di appello.
Il principio è pacifico e risalente nella giurisprudenza di questa Corte (in tal senso si veda già Sez. 1, Sentenza n. 2245 del 08/08/1963, in motivazione, secondo cui l’appellante ha l’onere di reiterare le eccezioni rimaste assorbite, “a meno che non siano state abbandonate in primo grado”).
La Corte d’appello, pertanto, non avrebbe dovuto ritenere non provata l’esistenza del danno, almeno nei limiti in cui esso era stato ammesso dalla società convenuta. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio su questo punto, affinchè il giudice del rinvio provveda a liquidare ex novo il danno patrimoniale da lucro cessante, tenendo conto delle difese svolte dalla Zurich nella propria comparsa conclusionale in primo grado.
- Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la nullità della sentenza per contraddittorietà insanabile della motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
Deduce che la Corte d’appello, nel ritenere indimostrata l’esistenza d’una contrazione dei redditi della vittima, ha fondato la propria valutazione sulle dichiarazioni fiscali da questa depositate.
Tuttavia le dichiarazioni fiscali non potevano dimostrare l’esistenza del danno, perchè il reddito perduto dalla vittima (l’indennità di trasferta estera dovuta agli autotrasportatori) era un reddito esente dall’imposta, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51 e come tale non doveva essere esposto nelle dichiarazioni fiscali.
2.2. La censura non è assorbita dall’accoglimento del primo motivo di ricorso, perchè l’accoglimento di essa consentirebbe al ricorrente di ottenere in sede di rinvio una liquidazione del danno patrimoniale integrale, e non soltanto nei limiti degli importi non contestati dall’assicuratore.
2.3. Il motivo è tuttavia infondato, per più ragioni.
La prima è che una sentenza può dirsi “insanabilmente contraddittoria”, e per ciò nulla ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, quando non sia possibile coglierne il senso, e non quando abbia valutato le prove in modo diverso rispetto a quanto invocato dalle parti. E nel caso di specie il senso della sentenza è cristallino: l’appellante, sostenne il giudice d’appello, non ha dimostrato di avere patito un danno da riduzione del reddito.
La seconda ragione è che in ogni caso quello denunciato dal ricorrente non sarebbe nemmeno un vizio logico, ma un vero e proprio errore di diritto, consistito nell’avere ignorato una norma fiscale: ma questo tipo di errore non è stato ritualmente denunciato dal ricorrente.
- Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la “nullità del procedimento per omesso esame di documenti”.
Sostiene che la Corte d’appello ha trascurato di esaminare due buste-paga, attestanti le retribuzioni da lui percepite nei mesi di luglio ed ottobre del 2001, dalle quali risultava l’ammontare delle indennità di trasferta percepite prima del sinistro. Se le avesse esaminate, dagli importi ivi indicati la Corte d’appello avrebbe potuto ricavare la prova dell’esistenza del danno patrimoniale da lucro cessante e del suo ammontare.
3.2. Il motivo è inammissibile.
Denunciare l’omesso esame di documenti decisivi da parte del giudice di merito è un motivo di ricorso che, per usare le parole della legge, “si fonda” sui documenti del cui mancato esame il ricorrente si duole.
Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).
“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:
(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;
(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;
(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).
Di questi tre oneri, il ricorrente ha assolto solo il terzo. Il ricorso, infatti, non riassume nè trascrive il contenuto delle suddette buste-paga; nè indica con quale atto ed in quale fase processuale (atto di citazione, memorie ex art. 183 c.p.c., ordine di esibizione, ecc.) siano state prodotte.
Ciò impedisce di valutare la rilevanza e la decisività dei documenti che si assume non essere stati esaminati dalla Corte d’appello.
Vale la pena soggiungere che il ricorrente lamenta come, nella stima del danno, non si sia tenuto conto della perdita di una indennità di trasferta: ovvero un emolumento che, teoricamente, non ha funzione retributiva, ma di rimborso delle spese sostenute dall’autotrasportatore per provvedersi di vitto ed alloggio in occasione di trasferte all’estero.
Ne consegue che, a livello teorico, la suddetta indennità costituisce il rimborso d’una spesa per la produzione del reddito, e come tale non avrebbe mai dovuto entrare a far parte della stima del danno da lucro cessante.
Se, infatti, in conseguenza d’un danno alla salute il lavoratore perde il proprio reddito, nello stesso tempo risparmia le spese in precedenza sostenute per produrlo: ragion per cui è antico e risalente il principio secondo cui nella stima del danno da incapacità di lavoro deve porsi il reddito della vittima al netto delle spese e dei costi sostenuti per produrlo (da ultimo, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 10853 del 28/06/2012; ma per la sentenza capostipite si veda già Sez. 3, Sentenza n. 3619 del 28/10/1975).
Da ciò consegue che la sentenza impugnata mai potrebbe dirsi nulla per l’omesso esame di documenti, perchè quei documenti non presentavano affatto, in mancanza di ulteriori precisazioni da parte del ricorrente, il carattere della decisività.
Questo motivo di ricorso, di conseguenza, deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
3.3. Resta solo da aggiungere, ad evitare fraintendimenti della presente decisione, che il rigetto del motivo in esame non è in contraddizione con l’accoglimento del primo.
I fatti non contestati, infatti, devono essere ritenuti certi dal giudice, “senza nessuna possibilità di andare in contrario avviso” (così già Sez. U, Sentenza n. 761 del 23/01/2002, in motivazione).
Pertanto, nella misura in cui la Zurich non ha contestato l’esistenza del credito attoreo per lucro cessante, l’esistenza del danno è divenuta incontestabile.
Per la parte eccedente tale soglia, resta intatto l’onere del ricorrente di allegazione e prova. Pertanto, per sostenere la nullità della sentenza per omesso esame di documenti decisivi, sarebbe stato suo preciso onere evidenziarne la decisività, e per evidenziarne la decisività avrebbe dovuto – oltre a riprodurne o riassumerne il contenuto spiegare per quali ragioni l’indennità perduta non costituiva un mero rimborso di spese, ma una vera e propria “voce” retributiva.
- Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza, perchè fondata su una motivazione apparente, nella parte in cui ha ritenuto non esservi prova che la vittima sia stata costretta, a causa delle lesioni patite in conseguenza del sinistro, a pensionarsi anticipatamente.
4.2. Il motivo è manifestamente inammissibile.
In primo luogo il ricorrente, non osservando la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non ha indicato nel ricorso in quale momento ed in quali termini abbia formulato la propria domanda di risarcimento del danno da anticipato pensionamento.
Nè, del resto, avrebbe potuto farlo: P.C., infatti, nell’atto introduttivo del giudizio – lo si rileva ad abundantiam – non dedusse affatto di avere patito un danno da anticipato pensionamento, essendosi limitato a dedurre di avere patito unicamente una contrazione del proprio reddito da lavoro. La relativa domanda dunque non poteva essere proposta in grado di appello, e tanto meno in questa sede.
- Il quinto motivo di ricorso.
5.1. Col quinto motivo il ricorrente lamenta, formalmente invocando il disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza d’appello sarebbe nulla per insanabile contraddittorietà della motivazione.
Nella illustrazione del motivo è contenuta una censura così riassumibile:
(-) il Tribunale di Frosinone liquidò il danno non patrimoniale patito dalla vittima applicando le cc.dd. “tabelle milanesi”, vale a dire attraverso il criterio equitativo del punto variabile di invalidità;
(-) dopo avere individuato la misura standard del risarcimento in funzione dell’età della vittima e del grado di invalidità permanente suggerito dal consulente medico legale, il Tribunale aumentò tale valore del 25%, per tenere conto della circostanza – emersa dalla prova testimoniale – che la vittima a causa dei postumi patì “un grave e permanente danno dinamico-relazionale”, consistito nella forzosa rinuncia ad attività precedentemente praticate, tra le quali il Tribunale indicò la cura dell’orto e del vigneto;
(-) la Corte d’appello, tuttavia, accogliendo il gravame della società Zurich, ritenne che non spettasse alla vittima la maggiorazione del 25% accordatale dal Tribunale;
(-) questa decisione del giudice di secondo grado sarebbe, conclude il ricorrente, tanto nulla quanto contraddittoria:
(–) sarebbe nulla, perchè non spiega le ragioni per le quali la Corte d’appello ha ritenuto di discostarsi dalla valutazione compiuta dal primo giudice;
(–) sarebbe contraddittoria, perchè il consulente tecnico medico-legale nominato dal Tribunale, a conclusione della sua relazione, aveva affermato: “nella necessaria personalizzazione del danno, alla luce delle recenti interpretazioni giurisprudenziali, può affermarsi inoltre l’insorgenza di un grave e permanente danno dinamico relazionale, con grave impedimento alle attività ludico-creative” (sic); e la Corte d’appello non ha spiegato perchè si sia discostata da tale valutazione.
5.2. Il motivo è infondato.
Per quanto attiene la denunciata nullità della sentenza per violazione dell’obbligo di motivazione imposto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, essa è insussistente.
La Corte d’appello ha infatti spiegato, a p. 9, p. 4.2, della propria sentenza, le ragioni per le quali ha ritenuto di accogliere l’appello proposto dalla Zurich, ed espungere dalla stima del danno alla salute la maggiorazione del 25% della misura standard, accordata invece dal Tribunale.
La Corte d’appello ha motivato la propria decisione affermando che il criterio di liquidazione del danno alla salute adottato dal Tribunale “già prevede una quota di danno morale soggettivo nell’ambito del danno extrapatrimoniale”; e che “le esigenze di personalizzazione (del risarcimento del danno) devono muovere da circostanze diverse da quelle che sono diretta e naturale conseguenza del danno biologico”.
La Corte d’appello, in sostanza, ha ritenuto che la perduta possibilità di dedicarsi ad attività ricreative, ritenuta dal Tribunale idonea a giustificare un aumento della misura-base del risarcimento del danno non patrimoniale, fosse un pregiudizio già ristorato attraverso la liquidazione del valore tabellare standard; e che di conseguenza, il tribunale avesse liquidato due volte il medesimo pregiudizio, chiamandolo con due nomi diversi.
La motivazione, dunque, esiste.
5.3. Il quinto motivo di ricorso è parimenti infondato nella parte in cui lamenta la “contraddittorietà” insanabile della motivazione.
Come accennato, secondo il ricorrente tale contraddittorietà deriverebbe dal fatto che la Corte d’appello da un lato avrebbe accertato in fatto l’esistenza d’un “danno dinamico-relazionale”, e dall’altro ha negato che tale circostanza giustificasse l’incremento della misura standard del risarcimento del danno alla salute.
Tale vizio tuttavia non sussiste, sebbene la motivazione della sentenza d’appello meriti, su questo punto, un’integrazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.
5.4. Nel presente giudizio il giudice di primo grado ha:
(a) accertato in facto che la vittima dopo l’infortunio ed a causa dei postumi, quantificati dall’ausiliario nella misura del 38% della complessiva validità dell’individuo, smise “di frequentare gente, chiudendosi in casa”, oltre a rinunciare alle attività di cura della vigna e dell’orto;
(b) qualificato questo pregiudizio come “danno dinamico-relazionale”;
(c) ritenuto che esso imponesse un incremento del 25% della misura base del risarcimento del danno non patrimoniale, che sarebbe stata altrimenti liquidata.
5.5. Il giudice d’appello, invece, ha:
(a) non discusso in facto che la vittima avesse “smesso di frequentare gente, chiudendosi in casa”, oltre che rinunciato alle altre attività svolte nel tempo libero;
(b) qualificato anch’egli questo pregiudizio come “danno dinamico-relazionale”;
(c) ritenuto che tale pregiudizio fosse “compreso nel danno biologico”, e di conseguenza che la sua accertata esistenza non imponesse alcun incremento della misura base del risarcimento.
5.6. Per stabilire se la decisione d’appello sia effettivamente contraddittoria nella parte in cui ha da un lato accertato un pregiudizio d’un certo tipo (rinuncia alle frequentazioni ed alle attività del tempo libero), e dall’altro affermato essere il “danno dinamico-relazionale ricompreso nel danno biologico”, questa Corte ritiene doverosa una premessa sulla nomenclatura degli istituti e delle categorie giuridiche in subiecta materia.
Nella materia del danno non patrimoniale, infatti, la legge contiene pochissime e non esaustive definizioni; quelle coniate dalla giurisprudenza di merito e dalla prassi sono usate spesso in modo polisemico; quelle proposte dall’accademia obbediscono spesso agli intenti della dottrina che le propugna.
Accade così che lemmi identici vengano utilizzati dai litiganti per esprimere concetti diversi, ed all’opposto che espressioni diverse vengano utilizzate per esprimere il medesimo significato.
Questo stato di cose ingenera somma confusione, ed impedisce altresì qualsiasi seria dialettica, dal momento che ogni discussione scientifica è impossibile in assenza d’un lessico condiviso.
L’esigenza del rigore linguistico come metodo indefettibile nella ricostruzione degli istituti è stata già segnalata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorchè hanno indicato, come precondizione necessaria per l’interpretazione della legge, la necessità di “sgombrare il campo di analisi da (…) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei “mantra” ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (…), (che)resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonchè la pigrizia esegetica” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
Il vaglio del quinto motivo di ricorso esige dunque, preliminarmente, stabilire cosa debba rettamente intendersi per “danno dinamico-relazionale”; e, prima ancora, se esista in rerum natura un pregiudizio così definibile.
5.7. L’espressione “danno dinamico-relazionale” comparve per la prima volta nel D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, il quale stabilì che oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro fosse l’indennizzo del danno biologico, e delegò il Ministro del lavoro ad approvare una “tabella delle menomazioni”, cioè delle percentuali di invalidità permanente, in base alla quale stimare il danno biologico indennizzabile dall’Inail.
Nel conferire al governo tale delega, il decreto stabilì che l’emananda tabella dovesse essere “comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali”.
Come dovesse intendersi tale espressione non era dubitabile: fino al 2000, infatti, l’Inail aveva indennizzato ai lavoratori infortunati la perdita della “attitudine al lavoro”, e l’aveva fatto in base ad una tabella, allegata al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che teneva conto unicamente delle ripercussioni della menomazione sull’idoneità al lavoro.
Pertanto, nel sostituire l’oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (sostituendo l’incapacità lavorativa generica col danno biologico), il legislatore con tutta evidenza volle precisare che la nuova tabella, in base alla quale si sarebbe dovuto stabilire il grado di invalidità permanente, dovesse tenere conto non già delle ripercussioni della menomazione sull’abilità al lavoro, ma delle ripercussioni di essa sulla vita quotidiana della vittima, che il legislatore ritenne di definire come “aspetti dinamico-relazionali”.
5.7.1. L’espressione in esame ricomparve nella L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, con la quale si intervenne sulla disciplina dei danni causati dalla circolazione dei veicoli.
Tale norma, dopo avere definito la nozione “danno biologico”, dettato il relativo criterio di risarcimento, e stabilito che la misura ivi prevista potesse essere aumentata del 20% per tenere conto “delle condizioni soggettive del danneggiato”, delegò il governo ad emanare una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità” (L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 5).
Il governo vi provvide col D.M. 3 luglio 2003 (in Gazz. uff. 11.9.2003 n. 211).
Tale decreto, tuttora vigente, include un allegato, intitolato “Criteri applicativi”, nel quale si afferma che la commissione ministeriale incaricata di stilare la tabella delle menomazioni vi aveva provveduto assumendo a base del proprio lavoro la nozione di “danno biologico” desumibile sia dal D.Lgs. n. 38 del 2000, sia dalla L. n. 57 del 2001: ovvero la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, “la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato”.
Dunque anche in quel testo regolamentare con l’espressione “compromissione degli aspetti dinamico-relazionali” non si volle designare un danno a sè, ma la si usò puramente e semplicemente come perifrasi della nozione di “danno biologico”.
Nel medesimo Decreto 3 luglio 2003, inoltre, nell’ulteriore “Allegato 1”, si soggiunge che “ove la menomazione incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali personali, lo specialista medico legale dovrà fornire motivate indicazioni aggiuntive che definiscano l’eventuale maggiore danno”.
Il senso combinato delle due affermazioni è chiaro: il danno biologico consiste in una “ordinaria” compromissione delle attività quotidiane (gli “aspetti dinamico-relazionali”); quando però esso, a causa della specificità del caso, ha compromesso non già attività quotidiane comuni a tutti, ma attività “particolari” (ovvero i “particolari aspetti dinamico-relazionali”), di questa perdita dovrebbe tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente.
Per la legge, dunque, l’espressione “danno dinamico-relazionale” non è altro che una perifrasi del concetto di “danno biologico”.
5.8. L’interpretazione appena esposta del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 e della L. n. 57 del 2001, art. 5 (poi abrogato ed oggi confluito nell’art. 139 cod. ass.) è corroborata dalle indicazioni della medicina legale.
Il danno non patrimoniale derivante da una lesione della salute è per convenzione liquidato assumendo a base del calcolo il grado percentuale di “invalidità permanente”.
Il grado di invalidità permanente è determinato in base ad apposite tabelle predisposte con criteri medico-legali: talora imposte dalla legge e vincolanti (come nel caso dei danni derivanti da infortuni sul lavoro, da sinistri stradali o da colpa medica con esiti micropermanenti), talora lasciate alla libera scelta del giudicante.
La redazione d’una tabella delle invalidità (bareme) è un’opera complessa, che parte dalla statistica e perviene ad esprimere, con un numero percentuale, la sintesi di tutte le conseguenze ordinarie che una determinata menomazione deve presumersi riverberi sulle attività comuni ad ogni individuo.
E’ infatti autorevole e condiviso, in medicina legale, l’insegnamento secondo cui “non ha più ragion d’essere l’idea che il danno biologico abbia natura meramente statica”; che “per danno biologico deve intendersi non la semplice lesione all’integrità psicofisica in sè e per sè, ma piuttosto la conseguenza del pregiudizio stesso sul modo di essere della persona (…). Il danno biologico misurato percentualmente è pertanto la menomazione all’integrità psicofisica della persona la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti”.
In questo senso si espresse già quasi vent’anni fa (ma inascoltata) la Società Italiana di Medicina Legale, la quale in esito al Congresso nazionale tenuto nel 2001 definì il danno biologico espresso nella percentuale di invalidità permanente, come “la menomazione (…) all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali (…), espressa in termini di percentuale della menomazione dell’integrità psicofisica, comprensiva della incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti”.
La conclusione è che, quando un bareme medico legale suggerisce per una certa menomazione un grado di invalidità – poniamo – del 50%, questa percentuale indica che l’invalido, a causa della menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere, come già ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 3, Sentenza n. 20630 del 13/10/2016; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
5.9. Da quanto esposto derivano tre conseguenze.
5.9.1. La prima è che deve essere rettamente inteso il senso del discorrere di “danni dinamico-relazionali” (ovvero, con formula più arcaica ma più nobile, “danni alla vita di relazione”), in presenza d’una lesione della salute.
La lesione della salute risarcibile in null’altro consiste, su quel medesimo piano, che nella compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all’essere, all’apparire.
Non, dunque, che il danno alla salute “comprenda” pregiudizi dinamico-relazionali dovrà dirsi; ma piuttosto che il danno alla salute è un danno “dinamico-relazionale”. Se non avesse conseguenze “dinamico-relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile.
5.9.2. La seconda conseguenza è che l’incidenza d’una menomazione permanente sulle quotidiane attività “dinamico-relazionali” della vittima non è affatto un danno diverso dal danno biologico.
Una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi:
– conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità:
– conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili.
Tanto le prime che le seconde conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale; la liquidazione delle prime tuttavia presuppone la mera dimostrazione dell’esistenza dell’invalidità; la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell’effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto.
Pertanto la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, non esce dall’alternativa: o è una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora si terrà per pagata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. “personalizzazione”: così già Sez. 3, Sentenza n. 17219 del 29.7.2014).
Dunque le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti “dinamico-relazionali”, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale.
Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico.
Ma lo giustificano, si badi, non perchè abbiano inciso, sic et simpliciter, su “aspetti dinamico-relazionali”: non rileva infatti quale aspetto della vita della vittima sia stato compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che quella/quelle conseguenza/e sia straordinaria e non ordinaria, perchè solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
In applicazione di tali principi, questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze “specifiche ed eccezionali”, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
5.9.3. La terza conseguenza, di natura processuale, è che le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale integrano un “fatto costitutivo” della pretesa, e devono essere allegate in modo circostanziato e provate dall’attore (ovviamente con ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l’allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
5.10. I principi sin qui esposti possono riassumersi, per maggior chiarezza, nel modo che segue:
1) l’ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale.
2) Il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomeno logicamente) unitaria.
3) “Categoria unitaria” vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.).
4) Nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell’illecito; e dall’altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici.
5) In sede istruttoria, il giudice deve procedere ad un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, dell’effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, opportunamente accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio.
6) In presenza d’un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).
7) In presenza d’un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.
8) In presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione).
9) Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza d’uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come è confermato, oggi, dal testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., così come modificati della L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, nella parte in cui, sotto l’unitaria definizione di “danno non patrimoniale”, distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello “morale”).
10) Il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell’uno come nell’altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria.
5.11. Alla luce dei principi che precedono si può ora tornare ad esaminare il quinto motivo del ricorso.
La Corte d’appello, come già detto, senza negare che la vittima a causa dell’infortunio abbia ridotto le proprie frequentazioni con altre persone, ha soggiunto che tale pregiudizio è “compreso” nel danno alla salute, e che di conseguenza nessun risarcimento aggiuntivo spettasse alla vittima, oltre la misura base prevista dalla tabella per una invalidità del 38% ragguagliata all’età della vittima.
In ciò non vi è nulla di contraddittorio: precisato, infatti, che i pregiudizi relazionali rappresentano l’ubi consistam funzionale del danno alla salute, è coerente con i principi sopra esposti ritenere in facto, da un lato, che una certa conseguenza della menomazione sia comune a tutte le persone che quella menomazione patiscano, e, dall’altro, soggiungere in iure che quella menomazione non imponga di conseguenza alcuna personalizzazione del risarcimento.
Lo stabilire, poi, se tutte le persone che abbiano una invalidità permanente de 38% riducano o non riducano la propria vita di relazione costituisce un tipico apprezzamento di merito, che non può essere sindacato in questa sede e che comunque non è stato nemmeno censurato.
Nè appare superfluo ricordare come questa Corte abbia già stabilito che la perduta o ridotta o modificata possibilità di intrattenere rapporti sociali in conseguenza di una invalidità permanente costituisce una delle “normali” conseguenze delle invalidità gravi, nel senso che qualunque persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali (in questo senso, ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 21716 del 23/09/2013, Rv. 628100; Sez. 3, Sentenza n. 11950 del 16/05/2013, Rv. 626348; Sez. 6-3, Ordinanza n. 15414 del 13/07/2011, Rv. 619223; Sez. 3, Sentenza n. 24864 del 09/12/2010, Rv. 614875; Sez. L, Sentenza n. 25236 del 30/11/2009, Rv. 611026).
- Il sesto motivo di ricorso.
6.1. Col sesto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 116, comma 7 e D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13.
Deduce che la Corte d’appello, allorchè ha proceduto a detrarre dal credito risarcitorio il valore capitale della rendita costituita dall’Inail in favore di P.C., ha eseguito questa operazione in modo giuridicamente scorretto.
Sostiene che l’errore sarebbe consistito nell’avere rivalutato il valore capitale della rendita alla data decisione, in base all’indice di svalutazione monetaria legato al costo della vita calcolato dall’Istat. Le rendite pagate dall’Inail, infatti, sono soggette ad un meccanismo di rivalutazione diverso, prescritto dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 116, comma 7.
Soggiunge, infine, che il valore capitale della rendita indicato dall’Inail nella propria comparsa di costituzione in primo grado (ovvero Euro 117.864,73) era già rivalutato.
6.2. Il motivo è manifestamente infondato.
In primo luogo, nulla rileva se la legislazione sull’assicurazione sociale preveda un meccanismo ad hoc di rivalutazione delle rendite.
La Corte d’appello era chiamata infatti a stabilire quale fosse il danno civilistico patito dalla vittima, al netto dell’indennizzo percepito dall’assicuratore sociale. E tale danno differenziale va calcolato coi criteri civilistici: ovvero liquidando il danno in moneta attuale, e sottraendo da esso il valore capitale della rendita pagata dall’assicuratore sociale, espresso anch’esso in moneta attuale, non potendo compiersi alcun calcolo finanziario tra entità monetarie eterogenee.
In secondo luogo, il valore capitale della rendita venne indicato dall’Inail nella comparsa di costituzione depositata nel 2005: correttamente pertanto la Corte d’appello, dovendo calcolare il danno differenziale nove anni dopo, provvide a rivalutare quell’importo.
In terzo luogo, nulla rileva la circostanza (del resto puramente adombrata dal ricorrente, senza sviluppare il tema) che la rendita pagata dall’Inail possa, in futuro, ridursi o cessare.
Infatti, come già ritenuto da questa Corte (Sez. 6-3, Ordinanza n. 22862 del 09/11/2016, in motivazione), delle due l’una:
(-) se la rendita pagata dall’Inail fosse ridotta prima che il diritto al risarcimento sia “quesito” (e dunque prima della sentenza definitiva, ovvero prima della transazione o dell’adempimento), ciò vorrebbe dire che le condizioni di salute dell’infortunato sono migliorate, ed anche di questo miglioramento si dovrà tenere conto nella monetizzazione del danno, con la conseguenza che la riduzione della rendita non comporta pregiudizi di sorta per la vittima;
(-) se la rendita pagata dall’Inail fosse ridotta dopo la sentenza definitiva o il pagamento, questo costituirebbe un post factum irrilevante, essendo sopravvenuto a situazione giuridica ormai esaurita.
- Il settimo motivo di ricorso.
7.1. Col settimo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione del giudicato interno.
Deduce che il Tribunale liquidò la somma di Euro 12.000 a titolo di risarcimento del danno consistente nelle spese di cura; che tale statuizione non era stata impugnata; che la Corte d’appello, liquidando ex novo il danno, ha defalcato dal credito complessivo il suddetto importo.
7.2. Il motivo è fondato.
Il Tribunale di Frosinone liquidò all’attore 12.000 Euro a titolo di risarcimento del danno per spese mediche; la Corte d’appello ha liquidato ex novo il danno, ma ha trascurato, nel determinare l’importo finale, di conteggiare questi 12.000 Euro, senza che alcuna delle parti avesse impugnato la relativa statuizione pronunciata la sentenza di primo grado.
- I motivi dall’ottavo all’undicesimo.
8.1. Con i motivi dall’ottavo all’undicesimo compreso, il ricorrente censura, sotto vari profili, le statuizioni contenute nella sentenza d’appello inerenti le spese di lite.
Tutti e quattro questi motivi restano assorbiti dall’accoglimento del ricorso, dal momento che la regolazione delle spese dovrà essere nuovamente compiuta dal giudice di rinvio.
- Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
la Corte di Cassazione:
(-) accoglie il primo ed il settimo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;
(-) rigetta il secondo, il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo di ricorso;
(-) dichiara assorbiti l’ottavo, il nono, il decimo e l’undicesimo motivo di ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 18 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2018