Prova civile – Poteri (o obblighi) del giudice – Fatti Notori – Interpretazione rigorosa – Necessità – Elementi valutativi implicanti conoscenze particolari – Esclusione – Scienza privata del giudice – Esclusione
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE
Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; di conseguenza, non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione d’analoghe controversie.
LA SENTENZA
Cassazione civile, Sez. lavoro, Sentenza del 07/03/2005, n. 4862
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. dinanzi al Giudice del lavoro di Napoli Ciro Palumbo conveniva in giudizio la s.p.a. Poste Italiane esponendo: -) di aver lavorato alle dipendenze della società convenuta in forza di un contratto a termine stipulato in data 21 luglio 2001, con inizio delle prestazioni il 24 luglio 2000 e termine il 30 settembre 2000, presso la filiale di Napoli con mansioni di portalettere; -) che tale contratto di lavoro era illegittimo perchè in violazione della legge n. 230/1962. Il ricorrente richiedeva, quindi, all’adito Giudice del lavoro “di voler accertare e dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato intercorso con la società convenuta e ai sensi degli artt. 1344, 1418, 1419, secondo comma, cod. civ., e della legge 230/62, l’illegittimità e/o la nullità del termine apposto al contratto, per l’effetto riconoscere ex art. 1424 cod. civ. e legge 230/1962 il diritto alla conversione del rapporto a tempo indeterminato fin dalla prima assunzione e, pertanto, dichiarare il diritto di esso ricorrente con reintegra nel posto di lavoro ed ogni relativa conseguenza”.
Si costituiva in giudizio la s.p.a. Poste Italiane che impugnava integralmente la domanda attorea – sostenendo la piena legittimità del contestato contratto a termine avente ad oggetto la sostituzione di dipendenti in ferie ex art. 8 c.c.n.l. giusta la deroga sancita dall’art. 23 della legge n. 56/1987 – e ne chiedeva il rigetto; in via istruttoria, richiedeva di provare che l’assunzione con contratto a termine del Palumbo era stata determinata esclusivamente per necessità di espletamento dal servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre 2000.
L’adito Giudice del lavoro rigettava il ricorso e – su impugnativa della parte soccombente e ricostituitosi il contraddittorio -la Corte di Appello di Napoli rigettava l’appello con compensazione delle spese del grado.
Per quello che rileva in questa sede la Corte territoriale ha rimarcato che: a) “la legge n. 56/1987 ha previsto ulteriori ipotesi di contratto a termine rispetto a quelle già indicate dalla legge n. 230/1962 demandando ai contratti collettivi la individuazione di tali ipotesi aggiuntive in cui è consentito stipulare contratti a termine”; b) “l’art. 8 del c.c.n.l. ha previsto l’assunzione a termine “per necessità di espletamento dal servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre” e costituisce una ipotesi aggiuntiva e diversa da quella prevista dalla legge n. 230/1962, che non contempla la necessità di indicazione del lavoratore sostituito in quanto l’assunzione viene fatta per tamponare le necessità di espletamento del servizio durante le ferie estive derivante dall’assenza di una molteplicità di lavoratori di uno stesso reparto e/o di reparti diversi”; c) “deve ritenersi priva di pregio la censura mossa alla sentenza impugnata sulla mancata dimostrazione della obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione del termine, (poichè esse si desumono dal dato notorio del godimento delle ferie soprattutto nel periodo luglio- agosto da parte della maggioranza del personale”.
Per la cassazione di tale sentenza Ciro Palumbo ha proposto ricorso sostenuto da due motivi.
L’intimata s.p.a. Poste Italiane resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1 -. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente – denunciando “violazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 230/1962, in relazione all’art. 23 della legge n. 56/1987, e degli artt. 1362 e 2697 cod. civ. – censura la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale erroneamente interpretato l’art. 23 cit, che (secondo esso ricorrente) “non ha determinato affatto il capovolgimento del principio generale, secondo il quale il contratto a tempo indeterminato costituisce la regola e l’assunzione a termine l’eccezione, (poichè la previsione ex art. 8 del c.c.n.l. si inserisce nell’ambito delle disposizioni di legge e, precisamente, in quelle di cui all’art. 1 (comma secondo, lettera b) e 3 della legge n. 230/1962, con obbligatorietà di indicare il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione nella lettera di assunzione”.
Con il secondo motivo il ricorrente – denunciando ‘Violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e dell’art. 3 della legge n. 230/1962 (in relazione all’art. 23 della legge n. 56/1987) e degli artt. 1362 e 2697 cod. civ., nonchè vizi di motivazione” – censura la statuizione della Corte di Appello sul punto “che costituirebbe ‘fatto notoriò la circostanza che nei mesi di ‘luglio-agostò il personale fosse solito godere delle ferie” e rileva, a conferma di detta censura, che “il Giudice di secondo grado ha impiegato incoerentemente ed illimitatamente la disposizione di cui all’art. 115 (secondo comma) cod. proc. civ., non consentendo l’instaurazione tra le parti in causa del rapporto principio dispositivo-principio del contraddittorio, ed introducendo nel processo prove non fornite dalla resistente e relative a fatti non vagliati nè controllati”. 2 -. Il primo motivo di ricorso non è meritevole di accoglimento.
Al riguardo si rileva – in conformità, su tale punto, a quanto recentemente affermato da questa Corte con la sentenza n. 14011/2004 (in parziale contrasto con le precedenti sentenze nn. 18354/2003 e 995/2004) – che l’art. 23 della legge n. 56/1987 sancisce, al primo comma, che “l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui all’art. 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni ed integrazioni, nonchè all’art. 8 bis del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”. L’ipotesi (così legislativamente consentita) riguardante la presente controversia è quella individuata dall’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, applicabile nella specie, secondo cui: “l’Ente potrà assumere personale con rapporto a tempo determinato. In tale caso al rapporto di lavoro si applicano le disposizioni contenute nelle leggi 18 aprile 1962 n. 230, 28 febbraio 1987 n. 56 e successive modificazioni ed integrazioni (primo comma);
in attuazione di quanto specificamente previsto dall’art. 23, punto 1), della legge 28 febbraio 1987 n. 56, l’Ente potrà valersi delle prestazioni di personale con contratto a termine, oltre che nelle ipotesi già previste dalle leggi di cui al comma precedente, nei seguenti casi: necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre (secondo comma)”.
La norma dell’art. 23 rappresenta uno sviluppo, indubbiamente fortemente innovativo, del modello dei contratti a termine “autorizzati”, per i quali, cioè, l’autorizzazione costituisce il presupposto necessario per la valida apposizione del termine di durata, già introdotto nell’ordinamento dal d.l. 3 dicembre 1977, n. 876, conv. in legge 3 febbraio 1978, n. 18 (con le successive modificazioni di cui alle leggi 24 novembre 1978, n. 737, 25 marzo 1983, n. 79, di conversione del d.l. 29 gennaio 1983, n. 117, e 25 marzo 1986, n. 84), mediante l’attribuzione ad un organo pubblico (Ispettorato del lavoro) del potere autorizzativo all’esito di accertamento preventivo degli elementi della fattispecie normativa dell’intensificazione dell’attività produttiva in determinati periodi dell’anno.
Con tale modello, in effetti, sono state create aree di lavoratori precari e stagionali nel mercato di lavoro interno all’impresa, in funzione di integrazione ricorrente dell’organico normale.
La riserva all’autonomia collettiva dell’individuazione di ipotesi di contratti a termine, ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge, ha inteso evidentemente creare un diverso sistema di controllo sulle modalità di utilizzazione dello strumento contrattuale, parallelo e alternativo rispetto a quello della legge n. 18/1978, per cui, accanto all’area originaria del contratto a termine per esigenze organizzative qualitativamente straordinarie, è stata prevista la possibilità di prevedere un’area di impiego normale e ricorrente del tipo contrattuale, del quale risulta in parte modificata la funzione economico-sociale, restando la tutela del lavoratore affidata non più alle previsioni di norme inderogabili, generali e astratte, ma allo strumento negoziale collettivo.
Peraltro, sulla portata della delega alla contrattazione collettiva, è sorto il problema interpretativo se il contratto a termine autorizzato dalla contrattazione collettiva venisse a costituire, essendone mutata la funzione economico-sociale, un tipo contrattuale a sè stante, interamente sottratto all’area di applicazione della legge 18 aprile 1962, n. 230, rimasta, fino all’entrata in vigore del d. lgs. 6 settembre 2001, n. 368, la legge generale della materia:
problema che può considerarsi definitivamente risolto dalla giurisprudenza della Corte, nel senso dell’affermazione del principio di diritto – Cass. Sezioni Unite n. 10343/1993, Cass. n. 18354/2003 – secondo cui la disposizione dell’art. 23 della legge n. 56/1987, che consente alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto individuale di lavoro, opera sul medesimo piano della disciplina generale in materia e si inserisce nel sistema da questa delineato.
Consegue a questo principio di diritto che l’applicazione di detta disposizione non si sottrae alla sanzione della conversione (del rapporto di lavoro a termine) in rapporto a tempo indeterminato e non deroga al principio dell’onere della prova a carico del datore di lavoro.
Il rinvio della legge alla contrattazione collettiva, per l’individuazione di ipotesi ulteriori (“oltre che”), rispetto a quelle già previste dalle norme richiamate dallo stesso art 23, reca la precisazione del livello della stessa contrattazione (nazionale o locale), con esclusione di quella aziendale, nonchè gli agenti contrattuali (“sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale); ma nessun principio o criterio direttivo viene contestualmente enunciato in ordine alle ipotesi da individuare, prevedendosi soltanto che le stesse debbano essere ulteriori e, perciò, diverse rispetto a quelle già previste dalla legge.
Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatali, non essendo questi vincolati all’individuazione di ipotesi comunque omologhe rispetto a quelle già previste dalla legge (Cass. 14011/2004).
In tale contesto è, altresì, da precisare che la fattispecie contrattuale ora in contestazione riguarda un periodo di tempo compreso tra il luglio ed il settembre 2000 e, quindi, una fattispecie esauritasi anteriormente all’entrata in vigore del summenzionato d. lgs. n. 368/2001, che ha modificato in senso abrogativo la precedente normativa ex legge n. 230/1962.
Non sono, poi, neppure applicabili ratione temporis le disposizioni derogatorie del regime di diritto comune ex ventunesimo comma dell’art. 9 del d.l. n. 510/1996 (convertito nella legge n. 608/1996) secondo cui “le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato effettuate dall’Ente Poste Italiane, a decorrere dalla data della sua costituzione e comunque non oltre il 30 giugno 1997, non possono dare luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato e decadono invece allo scadere del termine finale di ciascun contratto”.
In forza, invece, della suddefinita “delega in bianco”, l’art. 8 del c.c.n.l. (dinanzi testualmente trascritto) ha ipotizzato la possibilità per l’Ente Poste di “valersi delle prestazioni di personale con contratto a termine nel caso di necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre” ed ha espressamente sancito, come si è già constatato, che siffatta ipotesi si aggiunge – “… oltre che alle ipotesi già previste dalle leggi…” -, tra l’altro, a quella prevista sub b) del secondo comma dell’art. 1 della legge n. 230/1962 (ove era richiesta, nel caso di assunzione con contratto a termine per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, “l’indicazione del nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione”).
In base, quindi, ad una interpretazione sistematica della norma di legge (derogatoria della normativa generale ed attributiva di un potere di autonomia normativa ai “sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” praeter art. 39, commi 2/4, Cost.) e della disposizione del contratto collettivo la Corte territoriale ha esattamente ritenuto che, nella fattispecie in contestazione, non era affatto richiesto, per la legittimità dell’assunzione a termine, che il lavoratore fosse stato assunto per la sostituzione di un dipendente nominativamente indicato e che venisse indicata la causa specifica della sostituzione, ma soltanto che l’assunzione ex art. 8 c.c.n.l. fosse stata necessitata da esigenze di espletamento dal servizio che non potessero venire soddisfatte in conseguenza delle assenze per ferie del personale nel periodo giugno-settembre.
La motivazione addotta dal Giudice di appello appare, al riguardo, congrua e sicuramente rispettosa dei canoni ermeneutici ex art. 1362 e segg. cod. civ. in relazione all’interpretazione dell’art. 8 c.c.n.l. – nei cui confronti si appuntano, in particolare, le censure del ricorrente – in quanto la cennata disposizione contrattuale si riferisce ad una ipotesi aggiuntiva e diversa rispetto a quella prevista dal secondo comma (lettera b) dell’art. 1 della legge n. 230/1962, giusta quanto dinanzi considerato (in forza del disposto dell’art. 23 della legge n. 56/1987) e motivatamente ritenuto nella sentenza impugnata secondo il significato letterale (ex art. 1362 cod. civ.) del testo del contratto collettivo e, anche, in base alla comune intenzione delle parti sindacali, attribuendosi alla disposizione contrattuale il senso risultante dal complesso della disciplina della materia (ex art. 1363 cod. civ.).
E’, comunque, da rilevare che – in tema di interpretazione e di applicazione dei contratti collettivi di diritto comune – la parte, che intenda denunziare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nella interpretazione di una dichiarazione negoziale o di un comportamento contrattuale da parte del giudice del merito, deve specificare i canoni ermeneutici in concreto violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia da essi discostato, perchè, in caso diverso, la critica della ricostruzione della volontà negoziale e del comportamento inter partes operata da tale giudice e la proposta di una diversa valutazione investono il “merito” delle vantazioni del giudice e sono, perciò, inammissibili in sede di legittimità (Cass. n. 17993/2003).
Pervero, l’interpretazione della contrattazione collettiva in tutte le sue implicazioni è riservata all’esclusiva competenza del “giudice del merito”, le cui valutazoni soggiacciono, in sede di legittimità, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente: sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione, esigono una specifica indicazione (ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito) non potendo le censure risolversi, in contrasto con la qualificazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (Cass. n. 12054/2003).
Più in particolare le censure debbono essere rigorosamente specifiche con indicazione dei singoli canoni ermeneutici violati e delle ragioni della asserita violazione, mentre le censure riguardanti la motivazione devono riguardare l’obiettiva insufficienza di essa o la contraddittorietà del ragionamento su cui si fonda l’interpretazione accolta, potendo il sindacato di legittimità riguardare esclusivamente la coerenza formale della motivazione, ovvero l’equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, non potendosi perciò ritenere idonea ad integrare valido motivo di ricorso per Cassazione una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice di merito che – ripetesi – si risolva solamente nella contrapposizione di una diversa interpretazione ritenuta corretta dalla parte (Cass. n. 8994/2001).
Vizio al quale non si sottrae il motivo di ricorso in esame che si fonda sulla contrapposizione tra il contenuto della motivazione della sentenza impugnata e le mere argomentazioni addotte dal ricorrente – secondo cui “anche se prevista dalla contrattazione collettiva, l’assunzione a termine per sostituzione di lavoratore assenti per ferie deve rispondere, necessariamente, a tutti i requisiti indicati dall’art. 1, comma secondo, della legge n. 230/1962 e, pertanto, la lettera di assunzione deve contenere il nominativo del dipendente da sostituire e il periodo di sostituzione” – che, per la loro sostanziale apoditticità, non intaccano l’interpretazione data dal Giudice di appello all’art. 8 del contratto collettivo limitatamente al profilo che “tale disposizione non contempla la necessità di indicazione del lavoratore sostituito”. 3 -. Deve, invece, accogliersi il secondo motivo di ricorso.
A tale riguardo è, anzitutto, da precisare che – contrariamente a quanto asserito dalla società controricorrente – la società Poste Italiane era onerata a provare che nel periodo di tempo considerato dalla disposizione contrattuale sussisteva effettivamente “necessità di espletamento dal servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre”.
Infatti, su tale punto, vale evidenziare che l’effetto derogatorio nei confronti della legge n. 230/1962 attribuito alla contrattazione collettiva ex art. 23 della legge n. 56/1987 si arresta all’art. 1 della legge del 1962 e, quindi, non intacca il principio dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro ex art. 3 di detta legge (da ultimo Cass. n. 15297/2004 che esattamente rimarca che “l’art. 23 attribuisce alla contrattazione collettiva la possibilità di definire nuove ipotesi di legittima apposizione del termine, che possono essere diverse e più ampie rispetto a quelle previste dalla contrattazione collettive, ma la stessa non può avere alcuna incidenza sull’onere della prova delle condizioni che giustificano sia l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia l’eventuale proroga al termine stesso (Cass. n. 8366/2003, Cass. n. 3843/2000, Cass. n. 7519/1998)”).
Deve, pertanto, confermarsi che la regola in forza della quale l’onere della prova sulle condizioni che giustificano l’assunzione a termine, nell’ambito di quanto previsto in particolare dall’art. 8 cit, resta a carico del datore di lavoro, sicchè è da disattendere la posizione difensiva della controricorrente secondo cui addossare alla società l’onere probatorio ex art. 3 della legge n. 230/1962 significherebbe “porre a carico del datore di lavoro una probatio diabolica, tenuto conto della enorme mole di documentazione interna necessaria a tal fine”; ciò in conformità, ancora, a Cass. n. 15297/2004 a mente della quale “la tesi proposta dalla società tende ad impedire qualsiasi controllo tra le ragioni della stipulazione del termine e le ragioni sottese alla previsione astratta dell’ammissibilità della stipulazione stessa e si pone in netto contrasto con le previsioni dell’art. 3 della legge n. 230/1962” (nello stesso senso, sia pure con riferimento, a diversa fattispecie, Cass. n. 19692/2003, Cass. n. 19695/2003, Cass. n. 2866/2004).
Oltretutto l’argomento della “probatio diabolica” per tentare di dimostrare l’inesistenza di un onere probatorio a carico della società datrice di lavoro – di per sè inconsistente in linea di diritto – si pone in palese contrasto con il precedente comportamento processuale della stessa controricorrente, che, fin dal momento della sua costituzione nel giudizio di primo grado (nella memoria difensiva ex art. 416 cod. proc. civ.), ebbe ad articolare circostanziati “capitoli probatori” ad evidente riprova che era certamente possibile l’espletamento di una prova (ex art. 3 della legge n. 230/1962) sulla effettiva sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 8 c.c.n.l. in relazione all’art, 23 della legge n. 56/1987.
Parimenti non condivisibile è l’argomento addotto dalla controricorrente che costituirebbe “fatto notorio la diminuzione dell’organico in estate a causa delle ferie”, in quanto – a parte l’assoluta genericità e, quindi, inammissibilità dell’eccezione – la prova richiesta al datore di lavoro nella dedotta materia concerne l’effettività della sostituzione del lavoratore assunto a termine rispetto a dipendenti assenti per ferie e, in particolare, la circostanza fattuale che nella filiale di assunzione il numero dei dipendenti assenti per ferie sia almeno pari a quello dei dipendenti assunti a termine.
Alla stessa stregua non si condivide la statuizione contenuta del tutto marginalmente (e, quindi, immotivatamente) nella sentenza impugnata – secondo la quale “le condizioni che giustificano l’apposizione del termine si desumono dal dato notorio del godimento delle ferie soprattutto nel periodo luglio-agosto da parte della maggioranza del personale” – la cui erroneità appare evidente (a parte che, nella specie come rilevato dal ricorrente, il periodo lavorativo “copre” anche tutto il mese di settembre e, di conseguenza, tale periodo resterebbe al di fuori del cd. “fatto notorio” e non sarebbe, quindi, supportato da alcun elemento probatorio) se si considera che ®tale formulazione confonde causa e causale dell’assunzione a termine e, più di ogni cosa, non tiene conto del rilievo che, nel caso di specie, la contrattazione collettiva non volle evidentemente modificare la funzione economico- sociale del contratto a tempo determinato, limitandosi ad introdurre una ulteriore ipotesi di eccezione alla regola generale del contratto a tempo indeterminato” (così, espressamente, ancora Cass. n. 15297/2004).
A parte l’assoluta insufficienza motivazionale che inficia irrimediabilmente la sentenza impugnata, è da aggiungere che il ricorso al “fatto notorio” impropriamente operato dalla Corte di Appello (oltretutto in relazione alla circostanza, certamente ininfluente sulla decisione, del “godimento delle ferie nel periodo luglio-agosto”) – comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè controllati – va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; sicchè non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, nè quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poichè questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di analoghe controversie (Cass. n. 11946/2002, Cass. n. 5680/2000).
Di conseguenza, nella specie, non rientrava (secondo una corretta valutazione logico-giuridica) nell’ambito della “nozione di comune esperienza” il fatto che nel periodo del rapporto di lavoro del ricorrente (luglio-settembre 2000) esistesse presso la filiale di Napoli della s.p.a.. Poste Italiane una carenza di organico causato dalle assenze per ferie del personale in servizio con diritto alla conservazione del posto: per cui, anche sotto tale profilo, essendo viziata la motivazione della sentenza impugnata, il motivo di ricorso deve essere accolto e la sentenza va, in definitiva, cassata, con rinvio della causa ad altro giudice di appello, designato in dispositivo, perchè proceda al riesame della controversia uniformandosi al principio di diritto sull’onere probatorio enunciato e provvedendo alla valutazione delle risultanze processuali in merito all’assolvimento di detto onere probatorio da parte della s.p.a.
Poste Italiane; dando, poi, corretta motivazione del relativo decisum.
Il Giudice del rinvio provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di Cassazione (art. 385, terzo comma, cod. proc. civ.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata – in relazione al motivo accolto – e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di Appello di Salerno.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2005